Cronaca

Quando Pietro Mennea
venne ad Asola e si
raccontò agli studenti

Pietro Mennea si è spento all’età di 60 anni, in una clinica di Roma, sfinito da un male incurabile. Campione olimpico a Mosca 1980 nei 200 metri e detentore di un record sulla distanza che rimase imbattuto per quasi 17 anni, il più grande velocista italiano della storia ha partecipato più volte sia nel territorio cremonese che mantovano ad iniziative di solidarietà e sensibilizzazione. Fra queste, anche una tappa ad Asola, tre anni fa, il 26 marzo del 2010, per aprire il proprio album dei ricordi agli studenti delle scuole superiori nell’ambito degli incontri “Crescere nello sport” organizzati dal Panathlon Club Casalmaggiore Viadana Oglio Po Parma, presieduto da Corrado Lodi. All’epoca, il nostro giornalista Giovanni Gardani ebbe l’occasione di intervistare Pietro Mennea per il settimanale sportivo Sportfoglio. Riportiamo di seguito uno stralcio di quell’ampio servizio.

Tutto comincia da un bicchiere. Che non è il bicchiere buttato giù per dimenticare, né quello mezzo pieno o mezzo vuoto abusato per dissimulare dubbi. Il nostro bicchiere è un normale contenitore, su un tavolo, in un pomeriggio riarso di Barletta. “Avevo 16 anni. Voleva smetterla: volevo non andare più a scuola, volevo terminare anche la mia esperienza con la corsa. Mia madre prese un bicchiere e me lo spaccò in testa: anzi no, la mia testa s’è spaccata, ma il bicchiere rimase intatto”.

Da lì, da quella cicatrice, così come venivano alla luce gli dei greci, nasce Pietro Mennea. Anzi parte, per non fermarsi più: carriera ventennale, senza saltare nessuna grande competizione, fissando il proprio apice a Mosca nel 1980, con la medaglia d’oro olimpica. “Ma io” racconta Pietro, incontrato ad Asola al termine di un simposio con gli studenti delle scuole superiori nell’ambito dell’iniziativa Crescere nello sport “non sono rimasto soltanto fermo a quell’icona. Sono stato molto di più, ho cercato sempre di mettermi in gioco, di affrontare anche campi differenti rispetto all’atletica e soprattutto mi sono impegnato a primeggiare. Ho aperto un’associazione Onlus, ho vinto un Premio Puglisi per la solidarietà, ma non voglio passare né per eroe, né per santo. Vorrei essere un esempio, questo sì, lanciando messaggi, sperando che altri raccolgano. Senza però essere un’icona altrimenti il rischio è di accontentarsi, proprio come noi abbiamo fatto nell’atletica: da 30 anni non piazziamo, nella velocità, un finalista alle Olimpiadi. Siamo il Paese dove il merito viene messo in disparte, ma lottare, in vari campi, è un mio diritto e un mio dovere: sono uno dei pochi italiani citati all’università di Oxford, e non per quello che ho combinato nell’atletica, bensì per le mie idee politiche. Eppure a livello pubblico, nelle nostre Federazioni, ho sempre avuto poco peso, e mai sono stato interpellato”.

Senza falsa modestia, Pietro Mennea alza la voce: sa che può permetterselo, perché il sacrificio l’ha conosciuto da bambino. “Io non sono mai stato un predestinato: Vittori, mio futuro allenatore, mi scartò ad un primo provino, perché ero debole, magrolino, non avevo il phisyque du role. Potevo lasciare, e l’avrei fatto se non fosse stato per quel bicchiere. Con quella violenza formativa mia madre mi spinse ad aumentare gli sforzi: mi allenavo 350 giorni all’anno, anche a Capodanno, a Natale, a Pasqua. Le origini umili della famiglia mi hanno aiutato, insegnandomi a soffrire: ne ho guadagnato anche in concentrazione, dato che la disciplina della velocità questo è, perché in 10-20-30 secondi ti giochi tutto. E poi correvo sulla strada, sfidavo le macchine di grande cilindrata per scommessa, sui 50 metri. Vincevo quasi sempre, toccando anche i 40 chilometri orari, e mi guadagnavo qualche soldo. Un gioco, inizialmente d’azzardo, che ha pagato successivamente”.

Arrivando a quel 19’’72 che non sarà un’icona ma è durato, come record sui 200, 17 anni: uno dei più longevi della storia. “Tanto che, se avessi gareggiato contro Bolt a Pechino negli ultimi Giochi, sarei arrivato, a distanza di 30 anni, al secondo posto. Gli americani, soprattutto, tentarono di superarlo, organizzando appositamente meeting. Al Sestriere, nel 1996, spianarono una valle perché ritenevano che clima e circostanze favorissero l’abbattimento del cronometro. Si presentò Michael Johnson, sicuro di vincere, e infatti mi invitarono per celebrare il passaggio di consegne: per incentivare l’atleta offrirono una Ferrari in premio. Io dissi: “Vengo a presenziare, però se Johnson non mi batte la Ferrari la prendo io”. Non che la volessi, ma condannavo una certa arroganza degli organizzatori che davano tutto per scontato. Ebbene, Johnson non vinse (migliorerà il record soltanto qualche mese dopo alle Olimpiadi di Atlanta, ndr) ma la Ferrari non venne a casa con me. Quando vinsi l’oro a Mosca, pensate, il mio premio fu un corrispettivo di 4mila euro attuali: ci comprai sei poltrone in una fabbrica di Tolentino, che mia moglie voleva buttare pochi mesi fa e io ho rivendicato come premio olimpico. Un Ferrari per un meeting, sei poltrone per un oro alle Olimpiadi: bel paragone…”.

Giovanni Gardani

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