Tamar e le sue sorelle del Maccabi: la doppia vita tra volley ed esercito
Una storia normale, in quel Paese, che diventa decisamente particolare e insolita nel nostro. Nell’esercito le ragazze restano per due anni, poi possono scegliere: una sorta di servizio di leva, di fatto, obbligatorio anche per il gentil sesso.

HAIFA – “They can’t choose”. Non possono scegliere: lo ripete un paio di volte uno dei dirigenti del Maccabi XT Haifa, nell’immediato dopogara del match dei sedicesimi di andata giocato al PalaRadi di Cremona contro la Pomì Casalmaggiore. Non possono scegliere, le ragazze del Maccabi, quelle di nazionalità israeliana almeno, se si tratta di entrare nell’esercito.
Una storia normale, in quel Paese, che diventa decisamente particolare e insolita nel nostro. Nell’esercito le ragazze restano per due anni, e solo dopo possono scegliere: una sorta di servizio di leva, di fatto, obbligatorio anche per il gentil sesso. Tamar Stein, classe 1996, è una delle tre ragazze (assieme ad Anita Gluck e Shani Peham) che gioca per il Maccabi Haifa avversario della Pomì e che sta percorrendo questa strada. “Ognuno all’età di 18 anni entra nell’esercito israeliano, anche se le atlete professioniste hanno alcune agevolazioni – spiega Tamar – . Io per esempio ho un calendario particolare e un monte ore da sostenere che non va a confliggere con l’impegno sportivo. Inoltre abbiamo permessi speciali per viaggiare all’estero, qualora la squadra sia impegnata in competizioni internazionali, proprio come il Maccabi. L’esercito, di fatto, consente agli atleti di proseguire le proprie carriere senza interruzioni”.
Per Tamar la rappresentanza della bandiera è duplice: da sportiva e da militare. “Come molti cittadini israeliani sento che l’immagine internazionale del nostro Paese è molto importante. Tutti vogliamo la pace, ma sappiamo di vivere in un territorio lacerato. Tuttavia a volte mi sembra che di Israele emerga un quadro distorto: dai media non si percepisce questa terra come realmente è, bensì come viene dipinta a distanza. E questo da origine a contraddizioni. Restiamo pure in campo sportivo, ad esempio: alle Olimpiadi è accaduto spesso che atleti di altre nazioni che non condividevano la politica del nostro Paese si rifiutassero di gareggiare contro atleti israeliani. Questo non è giusto, è un fenomeno da condannare. Vorrei davvero che lo sport fosse un veicolo e uno strumento di comunicazione e per questo una competizione come la Champions League (dove il Maccabi è uscito al primo turno, ndr) o come la Coppa Cev (dove il team israeliano sfida appunto la Pomì, ndr) sono fondamentali per il nostro club e in generale per il nostro sport. Ci sentiamo responsabilizzate dal punto di vista simbolico e del messaggio trasmesso ma anche da quello tecnico: giochiamo contro le migliori squadre d’Europa, contro il livello più alto di pallavolo continentale. Ecco, ci sentiamo parte di un meccanismo più grande rispetto a quello che il nostro campionato può offrire e consideriamo questa come una grande opportunità”.
Una parola sulla Pomì? “E’ una squadra molto forte, lo sapevamo e lo abbiamo capito all’andata, dove pure abbiamo giocato due set più che discreti. Sappiamo che serve un miracolo (il Maccabi dovrebbe vincere 3-0 o 3-1 e poi conquistare il golden set, ndr), ma lo sport a volte regala belle storie: noi cercheremo di dare il massimo, lo faremo per noi e per il nostro Paese. Vincere sarebbe un sogno, esserci è già una positiva realtà”.
Quanto è distante, non solo tecnicamente ma anche come contesto, la pallavolo israeliana da quella italiana? “Da voi c’è una consapevolezza maggiore di questo sport. Ho visto il pubblico a Cremona, ho sentito che non era da pienone, ma 2300 spettatori per noi sono davvero un record e qualcosa di unico: anche perché non era un pubblico “teatrale”, che è rimasto zitto, anzi ha spinto la Pomì per tutta la gara. Io spero che in Israele possa crescere questo spirito anche per la pallavolo, che non è certo sport nazionale. Non abbiamo l’ambizione di diventare Vip, come si suol dire, ma credo che più attenzione farebbe bene al nostro movimento”. Quando lo sport è un mezzo nobile, prima che un fine…
Giovanni Gardani