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Il casalese "Gino" Galli: chiacchierata sul nostro calcio e sui suoi problemi. Ripartendo dai giovani

"Poniamoci una riflessione: dai 14 ai 16 anni abbiamo migliaia di ragazzini che abbandonano. Ci sta di stufarsi e di non essere portati al calcio, per carità, ma noi ci stiamo mettendo molto del nostro".

CASALMAGGIORE/FIORENZUOLA – “La vera democrazia sta nel merito: la vera democrazia non risiede nel fatto che tutti possano partecipare, ma che i più bravi riescano ad emergere”. Potrebbe essere una massima filosofica applicabile a un periodo più o meno imprecisato, e a scelta, dell’Antica Grecia. Invece a pronunciare la propria visione del mondo e dello sport è – oggi – Luigi “Gino” Galli, per anni portiere e allenatore della Casalese, da un paio di anni responsabile dell’Academy Fiorenzuola, il settore giovanile del club piacentino.

Un cannocchiale sull’attualità, quello di Gino, molto aggiornato, in particolare se parliamo di calcio baby. “Io credo di dire cose banali, o forse naturali – spiega – e mi stupisco facciano notizia. Lo sport è fatto di competizione, ma rientra in determinati paletti: se posso competere miglioro, se non posso competere al contrario non ho chance di fare passi avanti. Non solo: se il dislivello è eccessivo, non migliora nemmeno chi vince, anzi si peggiora da ambo le parti. Ho visto tanti ragazzini mortificati e tanti altri, talentuosi, che non si elevano perché inseriti in un contesto di non-competizione. Non è bello vincere facile, e da un certo punto di vista non è nemmeno educativo: ma non lo è neppure perdere in modo netto e umiliante”.

Qual è il riferimento? “Parlo dei campionati giovanili dell’Emilia Romagna, mentre per fortuna in Lombardia e nel Veneto si è fatto un passo avanti organizzando i tornei Élite. Faccio un esempio pratico: noi come società Fiorenzuola, iscritta con la prima squadra alla serie D, disputiamo con Allievi e Giovanissimi campionati troppo deboli, che così non forgiano calciatori i quali, una volta passati alla Juniores Nazionale, si ritrovano impreparati. E’ difficile anche reclutare giovani, peraltro, dato che il genitore si chiede: “Perché devo mandarlo a Fiorenzuola se la società del mio oratorio fa lo stesso vostro campionato?”. Questo crea un cortocircuito per tutto il sistema”.

La riforma di cinque anni fa dei campionati giovanili ha riguardato solo Emilia e Piemonte, ma non è mai stata rivista. “Da noi funziona così: fai una fase provinciale che dura da settembre a dicembre. Poi ti qualifichi per la fase regionale che va da gennaio ad aprile, e si chiude a primavera inoltrata con le finali. In province come Piacenza, che non hanno un bacino d’utenza enorme, il Fiorenzuola e pochi altri nomi importanti del nostro calcio dilettantistico arrivano facilmente alla fase regionale, che dura 14 partite ed è un vero e proprio torneo. Ma, a causa del livello basso del torneo provinciale, ecco che lo scontro con i migliori team emiliani ci trova spesso impreparati. Noi dobbiamo costruire uno sportivo che impari ad essere affidabile nel tempo e che si alleni tutto l’anno ad alto livello, che apprezzi le rinunce e questo, con tale formula, non è consentito se non per due mesi e mezzo-tre ogni stagione. Spesso è anche difficile mentalmente affrontare certe partite: fai il torello o fai 25 gol? Solitamente prevale la seconda soluzione, perché la differenza reti è decisiva. Ma pure il torello sarebbe dileggio dell’avversario, dunque a quell’età ancora meno educativo di un 25-0”.

Soluzioni? “A volte, nel calcio dei grandi, può capitare che si affronti, ad esempio nei primi turni di Coppa Italia, una squadra di livello estremamente superiore. E’ un po’ come se il Fiorenzuola sfidasse la Juventus e prendesse 15 gol. Quello sarebbe accettabile, perché accadrebbe una tantum. Il problema è che nei nostri tornei invece quelle goleade si ripetono con frequenza quasi settimanale. Anche per i club più piccoli incontrare un club rinomato e importante può diventare uno stimolo e non un motivo di depressione: se invece queste partite si rincorrono a cadenza puntuale, si toglie l’elemento di novità. Sì, dunque, ai campionati Élite e a campionati provinciali più competitivi e più educativi per tutti”.

E’ così netto ora il passaggio dai Provinciali ai Regionali? “Sì, troppo: con gli Allievi abbiamo giocato contro un’altra prima a pari merito con noi, è finita 3-0 e poteva essere un successo pure più largo. Idem con i Giovanissimi. Però non siamo fenomeni, se è vero che poi nei Regionali dobbiamo sudarcela. Io preferirei arrivare quintultimo nei Regionali che stravincere nei Provinciali, dove si qualificano le prime due di ogni girone che poi sfidano le prime delle altre province vicine, ossia Parma e Reggio Emilia. Solitamente, da gennaio, nelle prime tre partite perdiamo sempre e paghiamo dazio, perché siamo disabituati alla difficoltà e a un contesto di lotta agonistica. La Lombardia almeno ha mantenuto la categoria Élite, che potrebbe riguardare le formazioni giovanili di club di serie D ed Eccellenza, lasciando così più competizione alla fase provinciale pura e favorendo una crescita maggiore da parte di tutti”.

Peraltro esiste il caso limite di una società senza grande tradizione che rischia di non giocare mai nella categoria superiore. “Esatto, altro controsenso: se io ho una squadra dell’oratorio, che solitamente perde sempre, ma in quell’annata particolare azzecca tutto e vince, poi questa squadra, se il club non copre la trafila completa del settore giovanile, non può comunque partecipare al regionale. E allora si passa ai ripescaggi e si abbassa il livello di questo torneo, perché a qualificarsi magari è una terza o una quarta della fase provinciale. Il concetto della Federazione era quello di togliere un po’ del cannibalismo di squadre che portavano via ragazzini ad altre società: un’idea buona e giusta, tutto sommato, che però non ha funzionato. Se ne prenda atto”.

Tornando al Fiorenzuola, come procede l’esperienza dell’Academy in particolare nello sbocco Juniores-Prima squadra? “Bene, anche perché quest’anno c’è grande sintonia con il Ds. Non abbiamo un’annata eccezionale nei 2000 e questo non aiuta molto: ma stanno faticando, in serie D, ragazzi che hanno fatto le finali nazionali contro Cremonese e Modena. Significa che il livello della categoria si è alzato, perché giovani che vengono da Berretti importanti, non solo dunque da Juniores Nazionali, faticano a trovare spazio. Questo è un bene, perché è un innalzamento ancora giocabile e non eccessivo o che crea disparità: dunque è uno stimolo e non un muro verticale”.

Da qui può partire una riflessione sul calcio italiano. “Basta un dato, clamoroso: non ci siamo qualificati ai Mondiali pur essendo un Paese che ha un numero spropositato di iscritti al calcio. E ai Mondiali va l’Islanda: questa per noi è già una sconfitta a prescindere. Una volta il calcio era espressione di una cultura e di un popolo, oggi è solo un discorso di mercato internazionale e allora a questo punto lancio una provocazione: aboliamo le Nazionali. L’Italia era la squadra della scaltrezza e della furbizia, a volte del catenaccio, ma anche della tenacia e dell’orgoglio. Oggi che cosa è? Spiace dover ammettere questa triste verità perché tra l’altro il calciatore italiano è molto professionale, in media più del calciatore straniero, nello stile di vita da atleta. In Olanda abbiamo 6-7 atleti autoctoni obbligatori in campo, in Italia potremmo accontentarci di schierarne quattro. Sono tre nella pallavolo, e in quel caso su sette atleti, perché non prevedere quattro italiani sempre in campo nel calcio, che si gioca in undici? Sono convinto che lo spettacolo non peggiorerebbe: e sarebbe sicuramente migliore del vedere squadre già di serie B o di settore giovanile zeppe di stranieri”.

A ragionare così si passa per moralisti. “Lo so bene, ma non mi stanco di ripeterlo: sono soltanto idee dette da un signor nessuno. Poniamoci una riflessione: dai 14 ai 16 anni abbiamo migliaia di ragazzini che abbandonano. Ci sta di stufarsi e di non essere portati al calcio, per carità, ma noi ci stiamo mettendo molto del nostro, come adulti, perché stiamo distruggendo il gusto del giocare. Il freno deve arrivare o dal Coni o dalla Figc, ossia da organi super partes. Anche qui però si cercano la massa e le grandi cifre, ci si fa belli sul numero di iscritti: più sono, meglio è. Peccato che poi si entri spesso in un vicolo cieco. Bisognerebbe avere il coraggio di dire che, da regolamento, non esistono veri campionati sotto gli 8 anni per i Dilettanti o sotto i 12 anni per i tornei Professionistici. Altrimenti si rischia una precocità dell’agonismo che non fa bene a nessuno”.

Giovanni Gardani

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