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Giovanni Trapattoni, non solo calcio: lezione di vita allo Zenith di Casalmaggiore

Il Trap in piazza Garibaldi saluta anziani e giovani, Franco Frassanito del Centrale gli sottopone la foto della prima Juve allenata dal Trap: lui si emoziona e firma lo scatto. Scatta selfie, il mister, si concede per chiacchiere e consigli. GUARDA IL SERVIZIO DEL TG DI CREMONA 1

CASALMAGGIORE – Il Trap in cattedra: prima però sul mercato, al Bar Centrale, capace di catalizzare l’attenzione, ma di non perdere mai umanità e voglia di approcciare col mondo. Il perché, Giovanni Trapattoni da Cusano Milanino, invitato a Casalmaggiore dalla Sports Knowledge di Cremona per un convegno sul tema “L’arte difficile di fare squadra”, lo svelerà, intervistato dalla giornalista di Rai Sport Sabrina Gandolfi, subito dopo, dal palco dello Zenith, ricordando Emiliano Mondonico e ciò che li ha accomunati. “Con il “Mondo” venivamo da un passato di sacrificio, dalla terra, come dico io, che ci ha fatto capire come occorra sempre restare umani, nonostante la fama e la fortuna che il calcio poi ci ha regalato. Il “Mondo” era realista, concreto, umile: oggi dire umile sembra quasi offensivo, segno di debolezza, ma non è affatto così. E se il tuo passato è esperienza concreta, e non è una favola, ecco che è più facile essere da esempio e farsi seguire”.

Il Trap in piazza Garibaldi saluta anziani e giovani, Franco Frassanito del Bar Centrale gli sottopone la foto della prima Juve allenata dal Trap: lui si emoziona e firma lo scatto. Concede selfie, il mister, e si concede per chiacchiere e consigli, in particolare, chissà, ai campioni di domani. Qualcuno gli ricorda Furino, altri Platini: campioni e gregari di un’epoca di grande calcio difficile da rivivere, un calcio più compassato ma anche più tecnico di quello ultramoderno e veloce di oggi. Poi, in un teatro purtroppo con tanti vuoti – ma gli assenti mai come stavolta hanno avuto torto – sciorina una lezione di calcio e di vita. A cominciare proprio dalla figura del campione, lui che ne ha allenati tanti. “Non a caso questa parola inizia con la lettera “c” proprio come cuore. Il campione ha il cuore, ha il senso di appartenenza. E sa sempre che, se dai tanto, ricevi sempre amore e affetto. Allenando poi si impara anche: e comunque, come lezione di vita, mai dire non ce la faccio, mai crearsi alibi”.

Sul palco salgono i ragazzi dell’Approdo, la squadra di Rivolta d’Adda che Mondonico allenò portando a compimento il progetto del dottor Giorgio Cerizza e della clinica rivoltana che cura le dipendenze da alcool  stupefacenti. Uno di loro, in astinenza da quasi 2500 giorni (scatta l’applauso in sala), ricorda quando il “Mondo” gli diede una lezione di vita, imponendogli di giocare a due tocchi e facendolo giocare in difesa, anche se non lo aveva mai fatto. “Prima viene la squadra e tu in squadra servi dietro – gli disse Mondonico – e comunque passa la palla e pensa agli altri, non solo a te stesso”. Si parla della trasferta di questi ragazzi in Cile nel Mondiale Homeless e di quelle epiche un po’ “sangue e arena” del Trap, quando in Sudamerica si andava a giocare con la Nazionale o con i Club, sotto la dittatura di Pinochet, quando il calcio per quella gente era un modo per respirare rispetto all’oppressione, più che essere soltanto oppio dei popoli, in trasferte condite da un’apertura mentale che va ben oltre un prato verde. “Oggi studiare e acculturarsi non può essere un sacrificio, va considerato un dovere. Deve cioè essere la base del vivere comune”.

“Il talento – dice poi Trapattoni – nel calcio non esiste: esiste il talento del pittore, dello scrittore, ma non nel calcio. Nel calcio esiste il genio: esiste quello che sa già cosa fare senza che tu glielo insegni. Platini faceva lanci di 40 metri, pescando l’uomo che io stesso dalla panchina non riuscivo a vedere. Ma Platini era una spanna sopra tutti quelli che ho allenato. Certo, serve anche che madre natura sia generosa. Poi ci vuole la costanza, che è indispensabile per campioni e atleti normali”. Più testa o più cuore, chiede Gandolfi? “Entrambi, perché il cuore ti dà vita, ma senza la testa non può battere. In tutto questo fondamentale è sapere sempre dare l’esempio: guai a chi predica bene e razzola male. Io ad esempio saluto sempre per primo: forse faccio violenza a chi mi passa vicino, perché lo costringo a rispondermi, ma è gesto d’educazione, e ritrovare i rapporti umani anche ai tempi dei social si può fare partendo proprio da un gesto semplice come il saluto”.

A tal proposito, Trapattoni avanza quasi una riflessione antropologica, paragona Platini e Matthaeus, forse i due più forti da lui allenati, e vede la mentalità diversa del timido francese rispetto al tedesco, più prepotente e deciso, con un inserto anche tricolore. “Il tedesco è bianco o nero, è sempre “Ja Ja”, l’italiano invece ragiona e dice “sì” oppure “mah”. Io ho cercato, sperimentando culture diverse da quella italiana, di smussare gli angoli del mio carattere e di mediare. Ricordate la conferenza famosa su Thomas Strunz? Ecco, la sera lo trovai che piangeva: io gli andai incontro e mi scusai. Devi essere allenatore, ma anche psicologo”.

Tra i personaggi clou citati, non può mancare l’avvocato Gianni Agnelli. “Ricordo quando la stampa disse che la mia avventura sulla panchina della Juventus era finita: avevamo perso campionato e Coppa. Agnelli affrontò i giornali e disse: “Trapattoni era l’allenatore della Juve, e sarà l’allenatore della Juve”. Mi diede fiducia, capì che stavamo costruendo un percorso: l’anno dopo vincemmo tutto. L’avvocato era un personaggio. Quando si presentò mi disse: “Vede Trapattoni, noi non vogliamo vincere sempre, ma se ogni 2-3 anni porta a casa un trofeo siamo orgogliosi”. Davvero un presidente irripetibile”.

Contrario all’allenatore manager “perché i soldi li deve gestire il presidente e Agnelli sapeva quando una spesa era eccessiva e si tratteneva, avendo anche operai in cassa integrazione”, Trapattoni parla di fair play come di “un concetto che non è solo estetico, perché la persona si riconosce nel rispetto dell’altro”. Poi definisce lo Scudetto dei record con l’Inter come il suo capolavoro: “Pellegrini mi chiese di andare ad allenare, mia moglie voleva tornare a Milano e io accettai, ma chiesi due anni di contratto. Perché? Matthaeus e Brehme si liberavano dopo un anno dal loro contratto in Germania e così sapevo che li avremmo avuti a costo zero, dato che già avevo parlato con loro”. Dopo di che Trap ricorda il padre: “Quando iniziai a giocare, per convincerlo a lasciarmi fare, gli dissero che mi avrebbero cambiato la canottiera sudata subito dopo la partita, così non mi sarei ammalato. Venne a vedere il mio esordio in A e fu orgoglioso. Se ne andò pochi giorni dopo”.

Tra i mister di oggi, Trapattoni si rivede più in Conte, “sanguigno in panchina”, mentre Ancelotti e Allegri sono più riflessivi. “Anche se un nuovo Trapattoni non c’è” confessa. Un buon allenatore deve “saper prendere decisioni, risolvere i problemi e avere sempre rispetto dei ruoli. Oltre ad aver sempre pronto un “piano b”: per questo non ho rimpianti. Ogni partita la preparavo al meglio delle mie possibilità e pensavo pure alle alternative”. E a proposito di fare squadra, il Trap non è mai venuto meno a questo concetto… “Proposi io di allargare il premio per fare sentire partecipe tutta la rosa, per far capire che tutti potevano tornare utili. Per questo chiesi a chi giocava di più di lasciare giù un 10% del premio, da destinare a chi giocava meno”. Allo Zenith, nel convegno chiuso da Carlo Feroldi, che ha organizzato l’evento e ha ricordato la sua esperienza toccante da allenatore della squadra del carcere di Bollate, per il Trap c’era pure la piccola Mietta Martelli con la famiglia, ad ascoltare un’ora e mezza di consigli e pillole dal mister italiano più grande di sempre.

Giovanni Gardani

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