scuola

'Noi scrittori della Diotti', tutti i racconti in gara. Le parole degli adolescenti

Merito degli insegnanti che hanno saputo appassionarli, merito dei genitori che li seguono con attenzione. Ma merito soprattutto loro, che sono stati capaci di esprimere se stessi, in bella forma e soprattutto in bei pensieri.

CASALMAGGIORE – Ha vinto Lola, ma hanno vinto tutti. Tutte le ragazze e i ragazzi che hanno voluto mettersi alla prova, scrivendo con molta fantasia e cercando in se stessi parole che potessero disegnare stati d’animo, sogni, speranze, illusioni. Ma gli allievi della Diotti sono andati ben oltre perché hanno in tanti casi legato i loro pensieri all’attualità e alla storia. Bravi lo sono davvero. Merito degli insegnanti che hanno saputo appassionarli, merito dei genitori che li seguono con attenzione. Ma merito soprattutto loro, che sono stati capaci di esprimere se stessi, in bella forma e soprattutto in bei pensieri.

Abbiamo pensato di pubblicare tutti i loro scritti. Questi i racconti che hanno partecipato al concorso.


LOLA, LA BAMBOLINA DAGLI OCCHI DI COLORE AZZURRO COME IL CIELO di Chiara Baruffaldi (1A) (1° Class.)

In un grande capannone alla periferia di Pechino c’erano tante ragazze tra i dieci e i quindici anni che lavoravano molte ore al giorno per confezionare delle bambole di pezza. Erano tutte molto tristi perché erano costrette a lavorare tutto il giorno, senza tregua e senza scambiarsi una parola. Al termine della lavorazione le bamboline finivano in uno scatolone. Tra tutte, una risaltava perché aveva gli occhi ricamati con un filo di colore più chiaro rispetto alle altre e questo la rendeva più bella perché sembrava che avesse nei suoi occhi il cielo. La bambina che, al termine della catena dei lavori, le aveva messo addosso il vestito, se ne accorse e la riprese in mano per guardarla bene. Voleva tenerla con sé perché era molto diversa da lei che aveva invece gli occhi scuri e a mandorla, ma non aveva il tempo per giocare, doveva lavorare fino a tarda sera. Arrivava a casa stremata e subito si addormentava, come succedeva a tutte le altre che lavoravano in quel luogo.

A malincuore la ragazzina ripose la bambolina nello scatolone insieme con le altre e la salutò facendole l’occhiolino e augurandole un grosso in bocca al lupo. Lo scatolone fu chiuso e dopo un lungo viaggio la bambolina finì sullo scaffale di un grande magazzino di Milano insieme a tante altre. Quegli occhi di colore azzurro come il cielo attirarono l’attenzione di una nonnina che era in cerca di un regalo per la sua nipotina. Subito venne acquistata e fu una grande gioia per la piccola che si affezionò così tanto che le diede anche un nome: Lola. Ci fu subito grande intesa tra le due perché entrambe avevano gli occhi dello stesso colore.

La bambina, di nome Letizia, passava tutti i pomeriggi con la bambolina, la teneva sempre con sé e diventò la sua migliore amica. Le faceva confidenze e con lei si sentiva meno sola: infatti, era figlia unica, la mamma e il papà lavoravano e trascorreva tutti i pomeriggi con la nonna. Ma un giorno, come premio per i bei voti presi a scuola, arrivò in regalo a Letizia un cellulare. Da quel momento Lola venne messa su uno scaffale e vi rimase a prendere polvere per lungo tempo. La bambolina era molto triste perché era rimasta sola e vedeva che la sua padroncina aveva sempre in mano il cellulare ed era sempre molto nervosa e agitata. A casa non si impegnava più a fare i compiti come una volta. Il tempo passava e Letizia non si curava più di Lola, tanto che la nonna decise di spedirla insieme ad altri pupazzi nel Burkina Faso dove sicuramente avrebbe fatto
felici tanti bambini che non hanno giocattoli.

Lola, dopo tanti giorni passati al buio e al caldo dentro a un cassone, riuscì finalmente a vedere di nuovo la luce. Vide tanti bambini e bambine sorridenti con le mani alzate in attesa di ricevere un dono. Finalmente Lola finì tra le braccia di una bellissima bimba con i capelli cortissimi e molto ricci e con gli occhi color nocciola. Sembrava non avesse mai visto un giocattolo in vita sua perché stringeva quella bambolina forte forte al petto e non voleva più separasi da lei. Lola sentì una voce dolce, ma squillante che diceva: “Ciao, d’ora in poi tu sarai la compagna dei miei giorni e spero tu sia felice di stare al mio fianco… Saremo amiche per la pelle, ma soprattutto ci divertiremo un mondo insieme e ti assicuro che non ti abbandonerò mai!”. Dopo queste parole corse a casa gridando: “Mamma, mamma, ti faccio conoscere la mia nuova amichetta!”.

Ora la bambolina di pezza si sentiva veramente felice. Era sempre al centro dell’attenzione perché trascorreva ogni giorno insieme a tutte le bambine del villaggio che le volevano molto bene. C’era sempre chi le sistemava i capelli facendole delle treccine oppure chi le aggiustava i vestiti o chi le preparava da mangiare. Con il tempo lei e anche il suo vestitino si sgualcivano sempre di più, ma a lei non importava, bastava soltanto sentirsi amata. Si sentiva fortunata perché aveva qualcuno che si prendeva cura di lei e inoltre poteva guardare il cielo, ogni giorno, quando voleva.


IL PROIETTILE DELL’AMICIZIA di Raffaella Enrica Cerati (3D) (2° class.)

“Devi riuscirci! Non sarà poi così difficile” si ripeteva Ameera da quando era calata la sera. “Siamo in guerra, la morte è la quotidianità. Sei una guerriera e i guerrieri uccidono senza distinzioni, senza pietà. Cosa posso fare se non quel che mi viene chiesto? Questa è la guerra. Questa è la sua logica di devastazione: ti trasforma in un mostro, una marionetta di un meccanismo senza freni che distrugge e massacra l’esistenza.

Non c’è via di uscita da questo vortice di disperazione, se non con la morte.” la sua mente era tormentata da questi pensieri da quando aveva saputo che l’indomani avrebbe dovuto uccidere un ragazzino del campo. Non sapeva ancora il suo nome, aveva preferito non saperlo, uccidere senza conoscere, come in battaglia. Diceva che uccidere nel caos tra i corpi che cadono a terra a ritmi frenetici era ciò che facevano i soldati. Mentre sparare guardando in faccia la tua vittima che ti implora pietà inginocchiato sulla terra fredda e polverosa, in bilico tra il terrore e il senso di impotenza, con gli occhi gonfi di lacrime che fissano i tuoi concentrato a caricare di proiettili il fucile e puntarglielo alla fronte, questo è da mostro. E quel bambino, inginocchiato a terra, dagli occhi azzurri come il mare, i capelli neri ricci e il volto sporco di sangue era suo fratello, Amhed. Erano passati cinque anni.

Fino ad allora era stato proprio Amhed a tenere vive in lei le emozioni, poi con la sua morte è diventata un vero soldato, abituata a vedere cadaveri caderle accanto senza provare disdegno, a non versare lacrime ogni volta che sparava. Non si rendeva conto di essere fragile, una bambina cresciuta troppo velocemente che soffriva senza nemmeno accorgersene. Perchè Il suo cuore rifiutava il dolore ancora prima di incontralo, nascondendo le miserie e gli orrori che ormai non sembravano più tormentarla. Si era promessa appena arrivata al campo che avrebbe conservato la sua umanità, come dicono tutti. Eppure la guerra trasforma chiunque, senza eccezioni. Aveva trasformato anche lei perché rimanere umani laddove la vita sembra bandita, ti uccide più di un proiettile, ti distrugge fino allo sfinimento. Aveva imparato a non affezionarsi più, finché incontrò Rashid. Appena arrivato si distinse subito per il suo grande coraggio e spirito di fratellanza. Nella sua pelle color bronzo erano incastonati come pietre due occhi verdi bellissimi che contrastavano con i suoi capelli neri, neri come la notte in cui era arrivato portando un po’ di luce nella vita di Ameera. Era alto, snello, veloce. Non un proiettile lo aveva ancora colpito, sembrava avere la guerriglia nel sangue: ne capiva meccanismi e tempismi.

Ameera lo incontrò per la prima volta portandogli la colazione, una scodella di farina e acqua con una mezza cipolla bianca. Dato che era solo si sedette con lui e gli raccontò come era la vita nel campo, sfogandosi per la prima volta con qualcuno che in pochi istanti riusciva finalmente a capirla. Ogni sera prima di andare a dormire, si sedevano sotto i tralci degli alberi e condividevano idee, emozioni, sensazioni. Parlavano del loro passato, delle loro infanzie e delle loro famiglie, Ameera ricordava a fatica la voce della madre. Si arrampicavano sul grande salice ad ascoltare in silenzio le conversazioni dei generali e se loro sentivano qualcosa muoversi si divertivano a fingersi animali per poi scappare nelle capanne. Quando era con Rashid Ameera dimenticava, dimenticava tutte le disgrazie e gli orrori, tornava un’adolescente come le altre che voleva solo divertirsi: tornava ad essere la bambina che la guerra aveva cancellato.

Rashid, che era andato a scuola le leggeva sempre i due libri che gli erano rimasti. Si sorprendeva di come lei non si stancasse di ascoltare sempre quelle solite storie e di come ogni volta provasse diverse emozioni e si stupisse davanti al medesimo colpo di scena. “Vedi, è normale.” gli disse una sera. “Ogni giorno faccio delle esperienze nuove, vedo fiori che non avevo mai visto, nuvole che da qui non erano mai passate e sento il rumore di armi che non avevo mai sentito. Così ogni volta che mi leggi quei libri, ascolto quelle storie con orecchie nuove.” sospirò e poi continuò “Tu dai per scontato questo tuo talento ma io no. Leggere delle storie di persone molto distanti da noi per me è stupendo, non devi stupirti.” Rashid la guardò e poi la abbracciò.

E ora durante quella tormentata notte non faceva che ripensare a quell’abbraccio e a quanti abbracci avrebbe negato al ragazzino che l’indomani avrebbe ucciso.

Appena giunta l’alba vennero a chiamarla. La condussero nel bosco, dietro una pianta dove si trovava un ragazzo sdraiato per terra con il capo coperto da un sacco. Era legato dalle mani ai piedi. “Chi è?” volle sapere preoccupata con voce tremolante. Diedero un calcio al ragazzo e lo girarono. “Rashid!” urlò. Rashid piangeva in silenzio e la guardava negli occhi. “Questo ragazzo ha aiutato una bambina a scappare: sparagli!” le ordinò un superiore. Dopo qualche istante supplicò crollando in ginocchio sulla terra bagnata “Non ci riesco, non potete farmi questo, vi prego…” Cercava lo sguardo di Rashid che, invece la evitava. “Dovrai pregare Allah se non ti muovi a ucciderlo!”le rispose il soldato “Uccidimi, se non lo fai tu lo faranno loro, almeno tu vivrai” disse piangendo ad Ameera. Lei non lo ascoltava, non poteva farlo, non sarebbe arrivata a quel punto. Prese il fucile, se lo puntò alla tempia. “fermati, uccidi me. Ti supplico Ameera.” continuava lui in lacrime. Lei scuoteva la testa piangendo. “Basta, non puoi!” parole inutili, ormai aveva preso la sua decisione.“Mi dispiace Rashid. Ti amo troppo per farlo, Addio!”. E tra le grida di disperazione di Rashid, sparò.


LA STANZA SEGRETA di Margherita Soragna (1A) (3° class.)

Ciao! Mi chiamo Emma, sono alta, magra e molto intelligente. Ho i capelli castani, gli occhi verdi e sono molto ribelle. Da piccola giocavo sempre con il mio fratellino Riccardo: lui è basso e magro, ha i capelli biondi e gli occhi verdi proprio come i miei. Un giorno, in soffitta, lo stavo rincorrendo e, a un certo punto, sentii la voce squillante della mamma che urla: “Emma, aiutami a pulire la soffitta! È grande e da sola non riesco!”.

La mamma chiedeva sempre a me, perché io avevo nove anni, a quell’epoca, invece Riccardo tre e di conseguenza non poteva. Allora iniziai tirando l’aspirapolvere sul pavimento, mentre Riccardo faceva un pisolino. Dopo arrotolai il tappeto su se stesso per farlo lavare dalla mamma, ma quando fui a metà scoprii che nel pavimento di legno c’era una botola… Senza fare il minimo rumore e senza dire niente alla mamma, provai ad aprirla: accidenti, era chiusa! Per fortuna, qualche giorno prima, mentre giocavo con Riccardo, per errore, avevo fatto cadere sul pavimento una vecchia scatola con dentro i vecchi giochi di Ricky e una chiave. Allora, quando mi venne in mente quell’episodio, la andai a prendere e con la chiave provai ad aprire la botola che si aprì.

Ero molto felice, ma anche spaventata perché laggiù c’era buio! Corsi in cucina e presi la torcia che mi aveva regalato la mia adorabile zia Susan, ritornai in soffitta e scesi le scale ripide. Camminai e camminai finché… sentii una cordina sottile sottile che mi sfiorava la fronte. La tirai con molta delicatezza e si accese una lampadina tutta impolverata: quella stanza era piena di ragnatele, crepe nei muri e muffa. In quello strano posto c’erano solo una credenza e un baule impolverato, ma, per fortuna, aperto. Nella prima c’erano patente e carta d’identità di un uomo, nel secondo invece c’era la foto della mamma appena sposata (sembrava così dal velo e dai fiori) con la stessa persona sulla foto dei documenti nella credenza. Il giorno dopo, senza il consenso di mia madre, andai a casa del mio amico Jhonson.

Era un appassionato di indagini, anche perché suo nonno era un detective di fama mondiale e Jhonson aveva intenzione di ispirarsi a lui. Aveva moltissime apparecchiature sofisticate: infatti, quando arrivai a casa sua, capì subito il mio problema e mise l’unica foto che avevo di quella persona in una specie di macchina esaminatrice. In seguito mi spiegò che serviva per esaminare il DNA delle persone nelle foto. Dopo quindici lunghissimi minuti prese un altro macchinario con cui poteva esaminare il mio DNA e… avevamo lo stesso DNA! Quindi quello era mio padre!!!!! Adesso sì che si spiegava tutto: perché mia madre era single, perché tutte le volte che facevo domande lei si arrabbiava e anche perché non mi raccontava mai niente di lui, come se io e il mio fratellino fossimo le uniche persone al mondo senza un papà! Allora, curiosa, cercai su Google Giuseppe Vizzardi (che erano il nome e il cognome di mio padre).

Trovai varie foto. Io e Riccardo assomigliavamo tantissimo al “nostro papà”. Su Wikipedia c’era scritto che di professione faceva il militare, aveva due figli (Emma e Riccardo) ed era stato ucciso da… Qui scoprii la terribile verità! Quella più dolorosa! Lascio a voi lettori, la possibilità di immaginare, chi potesse essere l’assassino, il movente e il motivo della mia decisione. Successivamente andai ad abitare da mia zia, dando solo a lei le spiegazioni del perché mi ero trasferita lì. A diciotto anni, ormai maggiorenne, decisi di diventare indipendente e realizzare il mio sogno, cioè quello di diventare astronauta. Dopo molto tempo che non vedevo mia madre, la incontrai per strada, lei mi riconobbe, mi abbracciò e (ora ciò che ho scoperto realmente!!!)… si scusò con me per avermi tenuto nascosto il suo passato di tossicodipendenza ed aver ucciso durante una furiosa lite, sotto effetto della droga, mio padre. A quel punto le feci conoscere la mia famiglia ed ella rientrò nella mia bellissima vita. Alla fine mia madre fece ristrutturare quella stanza, che diventò una sala giochi per i suoi nipoti.


STORIA DI UN’AMICIZIA PROIBITA di Clelia Cirillo (3A) (segnalato dalla giuria)

Ho sognato più volte un nostro nuovo incontro,
un altro abbraccio, un altro sorriso.
Non ho visto né dove né quando,
solo io te, in un eterno paradiso.
Il destino ci ha divisi, completamente separati,
ma basterà un sospiro,
per richiamare a te i ricordi.
Non serve piangere,
non neanche serve ricordare.
Un amore come il nostro
non si può dimenticare.
Ho scelto più volte
la via sbagliata da seguire,
mi ha portato sempre a te,
ma come andrà a finire?
Ci sarà un altro incontro?
Un altro abbraaccio, un altro sorriso?
Spero di rivederti ancora…
solo io e te, in un eterno paradiso.


DIAMANTE E LA PIETRA NERA di Monica Cavalli (1A) (segnalato dalla giuria)

Tempo fa vivevano in un regno sotterraneo una principessa e il suo amato principe. Quel regno era pacifico e tutto andava per il meglio, finché un giorno, mentre la principessa dormiva, si sentì a un tratto una cantilena di parole incomprensibili. Diamante allora si alzò per capire cosa fosse. La cantilena proveniva dalla stanza del principe. Appena la principessa fu entrata, in un primo momento credette di essere solo in un incubo, ma non lo era! Davanti a lei c’era lo gnomo Griffo che stava cantando la cantilena e il principe Rubin era lì che soffriva… Lei, impotente, non sapeva cosa fare… A un tratto Griffo e il principe scomparvero, lasciando l’eco di quella cantilena nell’aria. La povera Diamante corse in città e lo disse a tutti gli abitanti che, svegliati di soprassalto, si spaventarono e, appena appresa la situazione, si scatenò il panico: nessuno sapeva dove fossero andati lo gnomo Griffo e il principe. Ma una cosa era certa: Griffo non aveva buone intenzioni. Già in passato aveva provato a conquistare il regno ed era stato solo grazie al principe se non ci era riuscito. E ora? Cosa potevano fare?

Proprio quando sembrava che tutto fosse perduto, apparvero dinanzi alla principessa due vecchietti che sostenevano di sapere qualcosa a riguardo e, visto che non c’erano molte alternative, Diamante decise di ascoltarli. La vecchietta disse: “Se vogliamo salvare il principe e il nostro regno, dobbiamo trovare la Pietra Nera. È unica al mondo ed è estremamente rara. Si trova nel regno delle Tenebre”. E il vecchietto continuò: “Per arrivarci bisogna superare tre prove: recuperare la chiave di cristallo nel mare della menzogna, trovare la spada Lapis nella foresta oscura e infine sconfiggere il drago Sion nella terra delle ossa”. “D’accordo! – esclamò la principessa – Partirò domani stesso, ma io non ho idea di dove si trovi questo mare! Come farò ad arrivarci?” e scoppiò a piangere. Il vecchio la rassicurò: “Tranquilla, noi abbiamo un libro chiamato Libro-Specchio perché ciò che vuoi vedere lui lo riflette, perciò basta che tu voglia la mappa e lui te la farà vedere”. “Fantastico!” esclamò la principessa. Quella sera Diamante non chiuse occhio; era troppo impaziente di rivedere il suo amato e di salvare il suo popolo.

All’alba la ragazza si svegliò e subito partì con il suo libro, viveri, vestiti e qualche coperta. Cammina cammina, si trovò davanti il mare. A un tratto, si accorse che tra quelle acque abitavano dei pirañha molto affamati. “Come faccio adesso? È un’impresa impossibile!”. Ma poi pensò: “Potrei chiedere al Libro-Specchio la formula per far apparire una tuta subacquea magica che mi permetterà di recuperare la chiave!”. Allora la principessa chiese la formula, ma il libro l’avvertì: Io posso procurarti la tuta, ma a una condizione: tu resterai per sempre muta. Diamante sentì un forte dolore al cuore, ma la sua convinzione era tale che comunque rispose: “Accetto!”. Subito la ragazza ebbe indosso una potente tuta che la riparò dai pirañha e così recuperò la chiave che, essendo magica, aprì un varco nell’acqua che le permise di passare. Ella avrebbe voluto ringraziare il libro, ma non poteva parlare. Per sua fortuna, però, il libro leggeva anche nel pensiero. Così il suo viaggio continuò verso la seconda prova. Arrivata davanti alla foresta, pensò: “Che stratagemma potrei inventarmi per superare questa prova?”. A Diamante venne un’altra idea e chiese al libro una lente magica in grado di trovare la spada Lapis. Il libro ancora una volta rispose: Io ti posso aiutare, ma tu, in cambio, a suoni e rumori devi rinunciare.

La principessa allora pensò: “Adesso mi tocca rinunciare anche all’udito?”, ma poi si rese conto che questo viaggio lo doveva al suo regno, alla sua gente e al suo amato principe Rubin. E così, ancora una volta, accettò e subito non sentì più niente tranne la voce del libro che le parlava nella mente. Così, la lente magica le indicò un albero, lei ci salì sopra e recuperò la spada. Appena l’ebbe presa in mano, Lapis cominciò a illuminarsi finché non creò un portale sopra al quale, in una lingua antica, era scritto “Portale per la Terra delle Ossa”. La principessa sentì un brivido percorrerle la schiena, ma arrivata a quel punto non si poteva tornare indietro! Allora Diamante entrò e si trovò a camminare su un mare di ossa umane, finché trovò la caverna di Sion, il drago più temuto di tutta la Terra delle Ossa. La ragazza trovò il coraggio e fece al libro la richiesta. Allora il libro rispose: Quello che desideri tu puoi avere, ma in cambio non potrai più vedere. La principessa allora, stizzita, si rivolse così al libro: “Tu mi hai già reso muta e sorda e adesso dovrei diventare anche cieca? No, no e poi no! Tu sei pazzo! Come tornerò a casa senza occhi? E come sconfiggerò il drago? Me lo vuoi spiegare?!?”. Diamante non si trattenne più e scoppiò a piangere. Il Libro-Specchio, senza scomporsi, rispose: A tutto il resto tu non penserai, se per me cieca diverrai. Allora la ragazza, anche se molto scossa da quella situazione, ancora una volta rispose: “Va bene, tanto peggio di così non può di certo andare!” e si chiuse in se stessa. A un tratto sentì tra le mani qualcosa di duro: ce l’aveva fatta, era proprio la Pietra Nera! Pianse per ore e ore, ma questa volta per la felicità. A questo punto, chiese al libro: “Ora come si torna a casa?”. Il libro rispose: Tranquilla, principessina, penso a tutto io: d’altra parte esser magico è il lavoro mio!

Arrivata a casa, la principessa non vedeva l’ora (per modo di dire…) di riabbracciare tutti, ma attraverso il tatto non percepiva presenza umana e allora chiese al libro dove fossero tutti. Esso spiegò a Diamante che Griffo aveva rinchiuso gli abitanti nella torre del castello. “Non c’è un minuto da perdere!” disse Diamante che, conoscendo il castello come le sue tasche, vi arrivò in un lampo. Non poteva né vederlo né sentirlo, ma lei sapeva che era lì. A un certo punto, prese la pietra e la scagliò con tutta la forza che aveva verso la fonte del male. La principessa sentì un urlo di paura e di terrore e poi più nulla, silenzio tombale. Diamante cadde a terra svenuta. Dopo molti giorni si risvegliò: ora riusciva di nuovo a vedere, a parlare e a sentire. La gioia di rivedere Rubin e i suoi amici era tale che ella non si preoccupò nemmeno di sapere come avesse fatto a tornare a casa o a recuperare i sensi perduti. Sta di fatto che Diamante si mise a piangere di nuovo, commossa per tutto quello che le era capitato e orgogliosa di se stessa per avercela fatta da sola con un libro che, anche se inizialmente un po’ crudele, era stato molto utile e l’aveva sempre aiutata.

Dopo essersi completamente ristabilita, volle sapere tutto, da quando se n’era andata a quando era, più o meno in sé, tornata. Allora i vecchietti cominciarono a raccontare: “Quando te ne sei andata, Griffo è arrivato e ci ha rinchiusi e, se tu fossi arrivata soltanto un secondo dopo, ora nessuno di noi sarebbe qui con te”. “E perché?” chiese Diamante sempre più curiosa. Allora proseguirono: “Griffo aveva Rubin in ostaggio e aveva promesso che, se gli avessimo dato il regno, l’avrebbe guarito e liberato. Il principe, però, non aveva voluto sacrificare il regno per salvare se stesso, perciò Griffo era pronto per buttarlo nella Laguna di Fuoco, promettendo che avrebbe fatto fare la stessa fine anche a noi”. “Ma per fortuna – si intromise il principe – sei arrivata tu che ci hai salvati!”. Poco tempo dopo, Diamante si accorse di essere in dolce attesa e diede alla luce una bimba che chiamò Light, in onore della luce che da quel giorno avrebbe brillato sul loro regno.


CAPELLI SOTTO AL BERRETTO di Araldi Martina (3A) (segnalato dalla giuria)

L’Italia fu uno dei paesi più belli che visitai. Trascorsi lì gli anni dell’università anche se ero di origini tedesche. Allora avrò avuto circa 20 anni e non mi rendevo conto di ciò che facevo. Ero così felice perché stavo finendo la scuola con ottimi risultati e inoltre avevo conosciuto un fantastico ragazzo che mi faceva sentire me stessa, in ogni momento; che mi resi conto, troppo tardi, di essere incinta. Noa, il padre, era di origini ebraiche, era alto e magro e aveva la pelle olivastra. I capelli, neri e lunghi e il naso leggermente aquilino.

Nostro figlio, Josh, nacque, in Italia, il 12 Febbraio del 1941 e mi fu portato via esattamente un anno dopo, quando cercai per la prima volta di presentarlo alla mia famiglia. Dovetti lasciare Noa e nostro figlio, che ritornarono in Italia, perché, come già si sa in Germania si era ormai affermato come partito al governo quello Nazista, che era di tipo anti-semita, capitanato da Adolf Hitler e mio padre si era rifiutato di avere un ebreo come nipote. Non voleva di certo rovinare la sua ascesa nella società. Naturalmente non mi dimenticai mai né di Noa e tanto meno del mio amato figlio Josh; ma fui costretta ad iniziare una nuova vita.

Mi sposai il 24 giugno del 1943 secondo un matrimonio combinato. Non decisi nulla. Nemmeno il viaggio di nozze, che io avrei senza dubbio trascorso in Italia. Mi trasferii, poi, da Holziminden, un piccolo paese della Germania settentrionale, a Monaco, per seguire mio marito negli impegni lavorativi. La nostra modesta casa, si trasformò, così, in una villa provvista anche di studio, che allora era un privilegio del quale non tutti potevano vantarsi. Le immense vetrate della cucina offrivano un panorama mozzafiato che regalava alla vista una visuale di un magnifico campo di girasoli. Mio marito lavorava come guardia all’interno di un campo di concentramento nei dintorni e, seppur non condividevo il suo mestiere, non mi ero mai permessa di esprimere nulla in proposito. Trascorrevo la maggior parte del mio tempo a casa da sola e dato che non lavoravo mi occupavo della casa e spesso facevo delle telefonate, da fisso e in anonimo, a Noa.

Mi piaceva ascoltare la sua voce che mi diceva che Josh stava bene, che si era fatto nuovi amici e che, nonostante la mia assenza, mi voleva bene e gli mancavo. Nel 1940, l’Italia, capitanata da Benito Mussolini, si alleò con la Germania e ne condivise anche gli ideali. Non furono gli anni migliori della mia vita. Anche chiamare era diventato un problema e mi limitavo dunque a guardare le foto, ormai sbiadite, che tenevo nel primo cassetto del comò. A casa da sola ebbi sempre meno da fare e, seppur mi trovavo in una delle più belle città europee, Monaco, si respirava aria di paura e tensione anche qui. Ogni giorno migliaia di soldati nazisti andavano nelle case per controllare se qualcuno di noi stesse nascondendo e/o proteggendo ebrei o qualunque persona stessero cercando in quel momento.

Naturalmente le conseguenze erano delle peggiori per entrambi, sia che tu fossi ebreo, sia che tu fossi il tedesco, con un po’ d’anima e di buon senso, che lo stava proteggendo. Campi di concentramento. Ecco dove andavano tutti. Un biglietto per sola andata. Solitamente, se non venivano direttamente a casa a “prelevarti”, spedivano per posta una lettera nella quale eri chiamato a fare ciò che ti chiedevano- entrare nell’esercito, andare a lavorare…- e dove ti convincevano che partire sarebbe stata l’unica scelta per salvarsi. Quella mattina- 13 Maggio 1944, mi ricordo esattamente la data- dovetti accompagnare mio marito fin all’ingresso del campo, poiché, seppur fosse estate, un terribile temporale non permise ai soldati di marciare impeccabilmente, come erano soliti fare, per raggiungere il lavoro. Scesi dall’auto e mi salii un groppo alla gola. Mai avrei potuto immaginare quello che i miei occhi videro. Sapevo che il campo non era il luogo migliore dove morire, lontani dalla famiglia, lontani da tutto ma le condizioni di coloro che lo riempivano erano inaccettabili.

Arrivammo in orario per le marce di quelli che nei giorni seguenti avrebbero lasciato questo mondo. Mi bastò uno sguardo. I suoi occhi non li avevo mai dimenticati. Erano sempre rimasti impressi nella mia mente e non potei non riconoscerli. Nascosi tutto però. Non alzai un dito per mostrare che li avevo riconosciuti e riuscii a non farmi scappare nessuna lacrima. Rimasero tutte dentro, ma sapevo che non sarebbe durato per molto. Stavo morendo dentro e nessuno lo capiva. Entrambi vestiti con il classico “pigiama a righe” e il cappellino. Non avevano niente di loro. Gli era stata privata la dignità, la vita. Non li avrei mai più rivisti. Tornai a casa e mi chiusi in bagno. Piansi, piansi molto ma non potevo accettare una cosa del genere. Dovevo alzarmi. Non era da me lasciar trapelare le emozioni tanto da perdere la ragione.

Mi sciacquai la faccia con l’acqua gelata e mi legai i capelli in uno chignon. Poi aprii l’armadio di fianco al letto, dove mio marito era solito tenere l’abbigliamento da lavoro, e presi il completo verde militare che indossai insieme al berretto; che mi coprì completamente i capelli. Mentre imboccai lo stretto viale che poetava al retro del campo mi guardai un ultima volta nello specchietto dell’auto. Ero sicura di quello che stavo facendo? – mi chiesi. Non del tutto. Sono sempre stata una persona sicura di sé. Non avevo mai dubitato delle mie capacità, ma questa situazione mi destabilizzò. Riuscii a entrare dalla porta sul retro con la quale i soldati raggiungevano, nel parcheggio, le loro auto nei periodi come questo. Il campo era molto esteso e non fu facile trovare il lager nel quale venivano rinchiusi coloro che stavano aspettando il loro momento. Iniziò a piovere e la terra sotto di me divenne ben presto fango. Non fu facile. Davanti a ogni lager c’era una guardia, armata, che controllava che nessuno uscisse. Ma, ormai, non avevano neanche più la forza e il coraggio di farlo. Non dovetti aspettare molto, che i dieci lager davanti a me si svotarono e si trasformarono in una fila di un migliaio di persone.

Non li vedevo. Forse avevo sbagliato; forse non erano loro. O forse semplicemente si confondevano con gli altri. Dovevo sbrigarmi. Non potevo permettermi di perdere un altro secondo a pensare a quello che avrei potuto fare fin dall’inizio. Iniziai a osservare ogni singola persona che potesse avere una corporatura simile alla loro e che avrei potuto allontanare con una scusa. Non mi scoraggiai nemmeno quando mi resi conto che la fila, di quei corpi che si trascinavano il peso e la paura di quello che stavano per affrontare, stava terminando. Sperai con tutta me stessa che in quelle venti persone si trovassero Noa e Josh, e finalmente li riconobbi. Credo che vedermi conciata in quelle condizioni li abbia fatti sentire meglio. Capii che anche loro mi avevano riconosciuta e notai nello sguardo del mio bambino un’aria di innocenza. Li chiamai. Non per nome ovviamente, non mi sarei mai permessa. Feci come se non avessi mai avuto nulla a che fare con loro e, con atteggiamento menefreghista e scocciato, li tirai per una manica fuori dalla fila. Non aprirono bocca i soldati. Forse si accorsero che stavo facendo sul serio.

Li accompagnai fino al lato opposto del campo da dove ero riuscita ad entrare e consegnai degli abiti di ricambio che ero riuscita a recuperare da alcuni cassetti di mio marito dai quali non prendeva mai niente. Non se ne sarebbe mai accorto. Dopodichè, senza dire una parola, salimmo in auto e non ci facemmo mai più vedere. Ritornai una sola volta a distanza di cinque anni dopo la fine della guerra e la liberazione dei superstiti del campo. Era rimasto tutto uguale. Lo stesso colore bianco della villa in cui abitavo, le stesse strade, le stesse persone. Mio marito non aveva chiesto di me né alla mia famiglia né aveva provato a cercarmi. Si dimenticò di me e basta; anche se non credo scomparvi dalla sua memoria. Ci sarà sempre qualcosa che gli ricorderà me. I miei genitori morirono entrambi. Andai a trovarli al cimitero solo qualche volta, ma non portai fiori. Vissi una vita felice con mio figlio e Noa, ma non dimenticai mai quello che vissi in quegli anni. Rimarrà sempre con me fino al giorno della mia morte e oltre.


BIANCO COME… di Elisabetta Cortelazzi (2A) (segnalato dalla giuria)

Se io ti dicessi “BIANCO”, cosa ti verrebbe in mente?
Non ti conosco, non so chi sei, ma presumo che tu abbia pensato alla luce.
Se riflettiamo bene, potremmo associare il bianco alla luce:
lo immagino come il leader dei colori, dato che la luce ne è l’insieme.

Il BIANCO è simbolo di vuoto, di indefinito, ma anch’esso ha un antagonista: il nero.
A volte sono rivali, altre volte amici.
Insieme si completano, ognuno ha quello che manca all’altro.
Si trovano ai lati opposti nella scatola dei colori, definendo così un inizio e una fine.

“BIANCO” come?
BIANCO come quel sorriso contagioso che spunta sul dito.
BIANCO come il latte materno, simbolo del nostro primo nutrimento.
BIANCO come un foglio triste, senza parole, ma libero di accogliere milioni di lettere.
BIANCO come le nuvole leggere che si distinguono nel cielo.
BIANCO come gli spazi tra una riga e l’altra di un libro,
tra i quali, però, si nascondono idee, sentimenti, ragioni, dubbi e conoscenza.
BIANCO come la pelle degli uomini che ne incontrano altri di colori diversi,
ma sempre unici e speciali.
BIANCO come la neve pura che copre il nostro mondo rendendolo più pulito e silenzioso.
E il silenzio fa riflettere.

BIANCO è neutro .
Perchè neutro? Be’… semplice.
Pensa a una cosa fondamentale, a cui non viene data la giusta importanza, dimenticata ma essenziale.
Il BIANCO è lì, non te ne accorgi?
Se la tua risposta è un no, vedi di darle valore.
Se stai leggendo questo testo è grazie al bianco del foglio che si oppone al nero dell’inchiostro.

Non so a te, ma a me il colore BIANCO fa pensare ai sogni.
Un colore apparentemente banale che diventa, osservandolo, una meravigliosa luce per i nostri occhi.


HO UN SOGNO… di Allegra Braganti (2^A) (segnalato dalla giuria)

Casalmaggiore, 30 Marzo 2018
Cara Saalima,

come stai? È da tanto tempo che non ci sentiamo! Ti scrivo perché ti vorrei raccontare quello che provo quando ogni giorno sento parlare del tuo Paese. Quotidiani e telegiornali ci bombardano di notizie e immagini terribili! Secondo me, se non ci fossero tutte quelle “incomprensioni”, sarebbe un Paese splendido e ricco di luoghi meravigliosi come Palmira con i suoi siti archeologici o Damasco con le moschee e i mercati. E invece no! Solo cumuli di macerie e tanta polvere con bambini scalzi che corrono alla ricerca dei propri genitori. Alla TV scorrono immagini drammatiche e agghiaccianti di intere famiglie che scappano da una guerra che li ha privati della casa, dei propri affetti, del diritto alla vita. Si incamminano percorrendo strade, oltrepassando frontiere, rischiando la vita alla ricerca di una libertà che non hanno mai avuto. In questi giorni al telegiornale, sui giornali e sui social ho visto un’immagine che mi ha raggelato e mi ha fatto riflettere ancora di più sulla miseria, sulla sofferenza e sulla vita del tuo popolo che ora è basata solo su incertezze, sul nulla.

La fotografia raffigurava un papà che teneva in mano una valigia all’interno della quale giaceva un piccolo bambino dormiente: da essa uscivano soltanto un braccio e la piccola testa. E poi come dimenticare Aylan, il bambino siriano morto sulle spiagge della Turchia due estati fa? Sono immagini molto forti e non so per quale motivo nessuno faccia niente… Soltanto tante parole, molte promesse, ma niente di concreto e presto tutto finisce nell’indifferenza. Mi impressiona e rimango incredula quando sento che nella “mia” Lampedusa arrivano bambini e ragazzi non accompagnati dai loro genitori. Ogni anno sono tantissimi e alcuni di loro sono veramente piccoli come Oumho di soli quattro anni o Fouvour di soli nove mesi che sono stati imbarcati perché almeno uno della famiglia possa scampare alla fame, alle persecuzioni, alle guerre, alla morte. Sono esperienze drammatiche che ti segnano per sempre. Costruire da zero una nuova vita… Per me sarebbe come rinascere, ma senza genitori… Credo che in questo periodo più che mai dobbiamo essere forti e uniti per combattere questa ingiustizia che sta privando migliaia di bambini e adolescenti della libertà di vivere dignitosamente. Ho un Sogno: che tutti i bambini del mondo possano godere degli stessi diritti, che tutti possano andare a scuola, che non esistano più i “bambini soldato”, che tutti abbiano la possibilità di essere curati, di avere una casa e una famiglia unita come la mia.

Ora, però, parliamo un po’ di noi. In questi mesi sono stata in Svezia, con i miei genitori, e in Francia per un viaggio culturale con la scuola e devo ammettere che è straordinario e fantastico viaggiare liberamente e conoscere nuovi Paesi. Ho iniziato a praticare atletica e ho scoperto che me la cavo abbastanza bene con la marcia. Inoltre il Martedì vado a lezione di pianoforte: per me è molto rilassante e soprattutto piacevole trascorrere un’ora di pura serenità. Ogni volta imparo e approfondisco delle melodie armoniose: la mia preferita è l’Inno alla Gioia e se mai, un giorno, ci incontreremo, te la suonerò. Finalmente è arrivata la primavera e nell’aria c’è profumo di fiori. Ho tanta voglia di andare in bicicletta! Come vorrei che anche tu, un giorno, potessi provare la sensazione che sento io quando spensieratamente vado sull’argine del mio paese o quando vado a scuola! Inoltre vorrei con tutto il mio cuore che questa amicizia durasse all’infinito e non vorrei mai che ti capitasse qualcosa di brutto, anche se ora, nel tuo Paese, stanno purtroppo accadendo solo fatti drammatici e angoscianti. Come sta la tua famiglia? I tuoi cari, i tuoi amici e tutte le persone a cui tieni? Parlami di loro. Non ti devi scoraggiare e soprattutto devi pensare sempre positivo e non permettere che i tuoi sogni vengano rasi al suolo come la tua città. Tutto questo si risolverà: bisogna avere solo molta pazienza e coraggio che a te non mancano!
Un abbraccio
Allegra


L’ARCOBALENO di Federica Schiattarella (2A) (segnalato dalla giuria)

In un piccolo villaggio dell’Africa Orientale viveva un bambino rimasto orfano. Si sentiva molto solo e la vita per lui non era di certo facile. Abitava in una povera capanna, non aveva nessuno su cui poter contare e aveva ben presto dovuto imparare a cavarsela con le sole proprie forze.

Un giorno, mentre si aggirava tra l’erba alta per cercare da mangiare, trovò del terriccio rossastro, lo prese, lo portò nella sua capanna e lo mise in una ciotola di terracotta. Stette a guardare tutta la notte il terriccio con quel colore così brillante e gioioso che gli fece pensare a tutti i momenti belli passati con i suoi genitori.

L’indomani decise di andare a caccia di altri meravigliosi colori: si mise seduto sul tetto della sua capanna a osservare con gli occhi sbarrati tutti i colori che lo circondavano e si rese conto che ce n’erano davvero moltissimi! Era immerso in un silenzio assoluto, quando a un certo punto alzò gli occhi al cielo e vide una palla di fuoco dai bei colori sgargianti e luminosi: era il sole che, con i suoi raggi, illuminava tutto il mondo. Il bambino così decise di catturare i raggi del sole in un piccolo vasetto: pensava infatti che il color arancione del sole si abbinasse perfettamente alla terra rossiccia che aveva raccolto il giorno prima.

Al pomeriggio, non sapendo cosa fare, si recò nella stalla degli asini per dar loro da mangiare i frutti che aveva raccolto vicino alla recinzione quando, improvvisamente, da dietro un cespuglio vide sbucare una piccola farfalla dalle mille tonalità di giallo: era davvero bellissima e molto aggraziata nei suoi movimenti; inoltre le sue ali così fragili e sottili gli ricordavano i caldi e affettuosi abbracci della sua mamma, abbracci che lasciavano un segno indelebile nel cuore.

Il giorno seguente si alzò con una felicità immensa, perché non vedeva l’ora di andare alla ricerca di altri colori. Camminando tra l’erba secca, vide spuntare in lontananza da una collinetta un ciuffo di erba color verde, corse più veloce della luce per acciuffarlo, l’afferrò e lo mise nella ciotola di terracotta dove si trovavano anche gli altri colori. Intanto si era fatta sera e per il bambino era giunta l’ora di andare a dormire.
L’indomani si alzò, come ogni mattina, entusiasta al pensiero di passare una nuova giornata alla ricerca di colori. Stette tutto il giorno seduto su un muretto di fronte a casa sua a osservare le meraviglie che lo circondavano, ma non vide niente e stava incominciando ad annoiarsi… Ma all’improvviso vide uscire dal retro di una piccola abitazione un uomo che stava gettando delle bacche andate a male. Senza fare il benché minimo rumore, le prese e le portò nella sua capanna. L’indomani si alzò, come ogni mattina, entusiasta al pensiero di passare una nuova giornata alla ricerca di colori. Stette tutto il giorno seduto un muretto di fronte a casa sua a osservare le meraviglie che lo circondavano, ma non vide niente e stava incominciando ad annoiarsi… Ma all’improvviso vide uscire dal retro di una piccola abitazione un uomo che stava gettando delle bacche andate a male. Senza fare il benché minimo rumore, le prese e le portò nella sua capanna. Avevano dei colori meravigliosi, tra il blu, l’indaco e il violetto, che gli ricordavano gli occhi di suo padre e le sfumature che essi assumevano in base alla luce del sole. Così, ancora una volta, si lasciò andare al flusso dei ricordi, pensando ai tanti bellissimi momenti che aveva trascorso con lui.

Il giorno seguente, al risveglio del primo raggio di sole, il bambino si alzò felice come sempre finché si accorse che la ciotola con i colori che aveva raccolto era scomparsa. Di colpo si rattristò, ma appena fu uscito dalla capanna vide nel cielo una fascia di colori brillanti: rosso, arancione, giallo, verde, blu, indaco e violetto che gli accarezzavano dolcemente il viso. Si sentiva in totale armonia con la natura! Subito tornò a essere così felice da commuoversi.

A quel meraviglioso arco di colori, capolavoro della natura, gli uomini diedero il nome di “arcobaleno”.


A PICCOLI PASSI di Vittoria Gorni (2A)

Mancavano pochi giorni alle gare di danza moderna e acrobatica che tutti aspettavano con apprensione e gioia nello stesso tempo. La tensione cominciava a farsi sentire, in particolar modo per Michelle e Giulia perché per loro era la prima volta che gareggiavano e quindi erano molto entusiaste. Erano due ragazze nuove arrivate da solo un anno in Italia: Michelle proveniva dalla Russia e Giulia arrivava dalla Germania. Conoscevano l’Italiano perché per entrambe uno dei due genitori era di nazionalità italiana, ma avevano avuto molta difficoltà ad ambientarsi nella nuova scuola perché tutti i compagni le ostacolavano. Quotidianamente, in classe, se qualche ragazzo combinava un disastro, Lucia, la più popolare della scuola, faceva ricadere la colpa su Michelle e Giulia che, non avendo nessuno dalla loro parte, venivano messe sempre in punizione. Proprio per questo motivo, ogni giorno, per loro, la vita si complicava sempre di più; inoltre, al di fuori della scuola nessuno le frequentava per il fatto che entrambe abitavano in un quartiere della città troppo periferico.

Un giorno, durante un allenamento di coreografie di danza, Lucia gettò di nascosto del borotalco sul pavimento della palestra provocando una distorsione alla caviglia di Chiara, una delle compagne del gruppo: l’obiettivo finale era far ricadere la colpa su Michelle e Giulia in modo da non farle gareggiare. In questo modo Chiara rischiava di non partecipare alle gare e, ovviamente, Lucia disse all’allenatrice: “Sono state Michelle e Giulia, hanno gettato del borotalco volutamente sul pavimento per farla cadere e per non farla gareggiare”. L’allenatrice chiese a Lucia: “Perché avrebbero dovuto farlo?” e Lucia allora rispose: “Lo hanno fatto per vincere a tutti costi… Sanno che Chiara è molto brava nelle coreografie acrobatiche e quindi temevano di essere battute da lei”. L’allenatrice furiosa andò negli spogliatoi dove Michelle e Giulia si stavano cambiando e, senza dare alcuna spiegazione alle due ragazze, le dichiarò fuori dalla gara. Non avendo avuto il tempo di chiarirsi con l’allenatrice, Michelle e Giulia scoppiarono in lacrime sotto lo sguardo beffardo di Lucia che, con una risatina cattiva, se ne andò. I giorni seguenti le ragazze cercarono in tutti i modi di convincere l’allenatrice per farle rientrare in squadra, senza mai perdere la speranza; proprio per questo motivo tutti i giorni, dopo la scuola, si allenavano quattro ore per migliorare le proprie coreografie. A due giorni dalla gara Michelle e Giulia guardavano le ultime prove e ammiravano i meravigliosi costumi luccicanti; il loro unico desiderio era quello di gareggiare con le loro compagne e di far vedere che anche loro valevano. Mancava solo un giorno alle gare tanto attese e tutte le ragazze si prepararono per partire verso il paese dove si sarebbe svolta la competizione.

Nonostante la consapevolezza di essere fuori dalle gare, Michelle e Giulia prepararono ugualmente le loro borse con i costumi e tutto il necessario. Partirono il pomeriggio con la squadra, così avrebbero almeno fatto da supporter. I campionati iniziarono la mattina presto del giorno successivo; le ragazze erano molto agitate, ma felicissime. Solo Michelle e Giulia erano arrabbiate e deluse perché erano consapevoli che tutta la fatica e gli sforzi fatti per allenarsi e migliorare sarebbero stati gettati via. La gara iniziò, ma il gruppo della scuola di Michelle e Giulia era tra le ultime a gareggiare e quindi avevano il tempo di provare ancora. Nel frattempo la tristezza delle due ragazze sedute in platea iniziava ad aumentare. All’improvviso udirono un urlo provenire proprio dallo spogliatoio riservato alla loro squadra. Michelle e Giulia iniziarono a correre e, quando ebbero aperto la porta, videro Lucia inginocchiata e in lacrime con tutto il trucco che le colava dagli occhi perché, mentre si stava preparando, il suo costume ricco di perle e nastri colorati si era strappato sulla schiena e in questo modo l’incidente le impediva di andare in scena. L’allenatrice tentò in tutti modi di cucirlo, ma lo strappo era talmente grande che era impossibile sistemarlo e quindi si rivolse a Lucia con profondo dolore dicendo: “Mi dispiace con tutto il cuore, ma tu non puoi gareggiare…”.

Prima che Lucia si lasciasse inondare da un mare di lacrime, Michelle e Giulia si misero in un angolo a riflettere e decisero che, nonostante tutto ciò che avevano subito dalla loro compagna e sebbene il loro desiderio fosse quello di gareggiare, una delle due avrebbe prestato il suo costume a Lucia permettendole di proseguire con la gara. L’allenatrice ringraziò Michelle e Giulia e accettò lo scambio, ma mentre Lucia si stava cambiando, andò dove si trovava il resto del gruppo e, commossa dal meraviglioso gesto delle sue compagne, disse: “Grazie mille, Michelle e Giulia, per il vostro generoso gesto, ma io non lo merito…”. Dopo qualche secondo di silenzio l’allenatrice esclamò: “Perché dici che non te lo meriti?”. “Perché non sono state Michelle e Giulia a rovesciare il borotalco sul pavimento e far cadere Chiara…” continuò Lucia. “Allora chi è stato?” domandò l’allenatrice e Lucia rispose: “Mi dispiace molto… sono stata io perché volevo che loro non gareggiassero”. “Dispiace anche a me, ma tu non puoi più gareggiare… e scusate, Michelle e Giulia, se vi ho dato la colpa senza indagare sull’accaduto” esclamò l’allenatrice. Michelle disse rivolta a tutta la squadra, ma soprattutto rivolta all’allenatrice e a Lucia: “Io e Giulia accettiamo le scuse di entrambe, ma vorremmo che anche Lucia partecipasse alle gare perché ci dispiace per lei e desideriamo essere una squadra unita… In fondo… tutti possono sbagliare e dai propri errori si impara!”. L’allenatrice, emozionata dal discorso di Michelle, fece gareggiare tutte e diede a Lucia il costume di Chiara che era infortunata.
Tutte le ragazze diedero il meglio di se sé e alla fine festeggiarono la loro grande vittoria, ma soprattutto la nascita di una grande AMICIZIA.


CREDICI di Alice Scaravonati (2A)

New York, 10 settembre 2011
Caro diario,
mi chiamo Lucas, ho 13 anni e mezzo e sono di origini africane, ma me ne sono dovuto andare dal mio Paese natale. Mio padre è in guerra e mia mamma è riuscita a trovare lavoro qui, come infermiera. Ho molta paura, ma la mamma mi dice sempre: “Stai tranquillo, Lucas, andrà tutto bene. Io lo faccio per voi, perché abbiate un futuro migliore!”. Io mi fido di mia mamma, ma mi fa soffrire il pensiero che non rivedrò più la mia terra d’origine. Siamo arrivati da poco a New York e mi ritrovo davanti a palazzoni enormi, tutti vetrati. Io non sono come gli altri. A otto anni mi hanno amputato l’arto inferiore destro per via di una strana malattia che ho da quando avevo due anni. Mi hanno operato proprio qui, in questa città. Ora al posto della mia gamba ho una protesi che mi aiuta a camminare.

New York, 11 settembre 2011
Domani comincio la scuola. Andrò in una scuola che mi è praticamente sconosciuta, la “High School of York”, conosciuta anche come “HSY”. Sono molto emozionato, ma anche molto preoccupato. Io adoro studiare, fare ricerche e i compiti di Matematica mi piacciono tantissimo! Ma mi vergogno. Mi vergogno della mia malattia cardiaca. Non so se riuscirò a fare tutto, se riuscirò a compiere tanti sforzi. Per di più al mio Paese non sono mai andato a scuola e la mia insegnante è sempre stata mia madre che continua a dirmi: “Credici, Lucas. Credici!”. È lei la mia fonte di coraggio. È lei che mi aiuta ad affrontare i momenti più difficili. Domani anche mio fratello George comincia la scuola, la prima elementare. È euforico. Vuole imparare a leggere e a scrivere perché continua a dire: “Mamma, mamma! Lo sai che voglio fare lo scrittore?! Voglio diventare come Stephen King!” e mia mamma risponde sempre così: “Ma certo che lo so, amore mio!”.

HSY, 12 settembre 2011
Sono finalmente davanti alla scuola. Mia madre mi ha appena lasciato urlandomi: “Credici, ci devi credere! Tutto è possibile!”. Questa è la cosa che mia mamma mi ha sempre insegnato: devo credere nei miei sogni. Io voglio diventare un atleta. Ho sempre voluto correre. Correre senza mai fermarmi. Appena metto piede nella classe, volano sguardi di disprezzo, disgusto. Sono molto imbarazzato. Continuano a osservarmi la gamba. Provo a sedermi, ma nessuno mi vuole accanto. Mi sistemo allora nel banco in fondo alla classe. Se intervengo per rispondere alle domande dell’insegnante mi canzonano: “Attenzione! Ha parlato colui che si fa insegnare dalla mamma le addizioni!” esclama un certo Jack con aria di sfida. Tutti ridono. Sto veramente male e non vedo l’ora che suoni la campana di fine lezione per correre a casa da mia mamma. Ecco finalmente il suono tanto atteso. Corro fino a casa piangendo come una fontana. Arrivato, abbraccio mia mamma che mi dice: “Non ti preoccupare, tesoro. Ce la farai!”. “Mamma… Io non voglio arrendermi!” le rispondo e chiedo: “Posso praticare atletica?”. Io speravo in un sì, ma mia mamma mi risponde: “Lucas, lo sai che farei di tutto per te. Ma il mio stipendio non me lo permette…”. Deluso, vado in camera e comincio a fare i compiti e a studiare. Poi esco e corro su e giù per le scale. Ma, ad un tratto, sento qualcuno che mi dice: “Attento alla gamba!”. Mi giro e vedo Jack e la sua banda di bulletti ridere di me. Poi corrono via. Dopo essermi assicurato che se ne siano andati, faccio a tutta velocità un po’ di giri del quartiere residenziale dove abito. Un signore mi vede e mi guarda con aria incuriosita. Io lo ignoro, ma lui mi ferma e mi chiede: “Ragazzino, come ti chiami?”. E io: “Ehm… Lucas”. Lui mi dice con tono molto serio: “Sei bravo. Che ne dici se dopo la scuola passi da me? Per allenarti, intendo”. “Ma… lei chi è?” chiedo io. Il signore, un ometto magro, sulla sessantina, con tuta da ginnastica e un paio di scarpe Nike, con in mano un sacco della spazzatura che sta andando a buttare, mi risponde: “Sono un allenatore di atletica leggera: corsa, ostacoli, resistenza, velocità e tante altre discipline”. “Allora perché mi guardava? Sono solo un bambino senza una gamba!”. “Non sei solo un bambino senza una gamba. Tu sei speciale. E io ti ho fermato perché ti voglio allenare”. “Cosa?!?” esclamo io stupefatto. “Ti voglio allenare perché tu possiedi un talento che solo pochi hanno. Come ti ho detto prima, tu sei un bambino speciale e io ti voglio allenare per farti correre come hai sempre voluto fare”. “Ma è una cosa a dir poco grandiosa!” rispondo euforico. “Su, forza, vallo a dire a tua mamma!”. “Ci può contare!!!”. Sono talmente emozionato che, quando rientro a casa, comincio a parlare balbettando per via del fiatone. Mia mamma mi chiede: “Cosa c’è, Lucas?”. Io con tono frenetico rispondo: “Mamma, un signore mi ha fermato e mi ha detto che vuole allenarmi! Lui è un allenatore di atletica leggera! Ti prego, mamma, posso allenarmi assieme a lui?”. Con sguardo perplesso la mamma mi risponde: “Certo, Lucas! Se questo è il tuo sogno realizzalo. Non te lo impedirò. E mi raccomando: credici!”. “Certo, mamma. Contaci!” le rispondo. Sono molto agitato, ma sollevato perché domani andrò a scuola con la giusta carica per affrontare i miei compagni.

HSY, 13 settembre 2011
Oggi è finalmente arrivato il giorno che aspetto da tanto. Oggi facciamo ginnastica e dimostrerò a tutti quanto valgo veramente. Cominciamo. Io sono contro Jack. Sto vincendo, ma… Laurence, un amico di Jack, mi fa cadere, facendomi lo sgambetto con il manico della scopa. La protesi scivola via dalla mia gamba. Tutti mi fissano e Jack non perde occasione per infierire: “Ah, guardate! Il mostro senza gamba!”. Io mi rimetto la protesi e corro nello spogliatoio. Rimango lì, seduto sulla panchina con le mani tra i capelli a piangere. A un tratto sento la porta aprirsi. È Marcus, uno dei bulletti. “Cosa ci fai qui?” chiedo. Ma lui risponde in maniera totalmente inaspettata: “Qualcuno doveva pur tener testa a Jack!”. “Cosa vuoi dire?” gli chiedo. “Voglio solo dire che, siccome neanche il professor Smith aveva capito cosa fosse successo, gliel’ho spiegato io. Così hanno mandato Jack dal preside che lo ha sospeso per una settimana”. “Ma perché l’hai fatto?”. Sono molto perplesso, ma lui mi dà una risposta che non dimenticherò mai: “Voglio amici carini per una volta… non come Jack!”. “Io non ho mai avuto amici. Tu sei il primo” rispondo io. Ritorno a casa più contento che mai, ma la mia felicità si spezza in un attimo. Mia mamma piangendo mi dice: “Tuo padre è morto…”.
Sono passati alcuni anni da quel giorno. Non so spiegarmelo, ma quel dolore mi ha dato la carica per affrontare le mie paure. Mi sono diplomato in Psicologia e ho partecipato alle Paraolimpiadi. Ho vinto l’oro nella corsa e sono diventato un idolo per le persone di tutto il mondo. È proprio vero: “TUTTO È POSSIBILE!”.
Lucas


LA BICICLETTA GIALLA di Beatrice Cantarelli (1A)

Per il suo settimo compleanno, Giovanna ricevette una bellissima bicicletta gialla. Erano mesi che chiedeva al papà e alla mamma una nuova bici perché la sua era diventata piccola, la sella era rovinata, la vernice si era scrostata in diversi punti e il campanello si era staccato: lei era stata la terza proprietaria di quella bicicletta che era appartenuta prima ai suoi cugini. Quella nuova, invece, era di colore giallo limone e aveva un manubrio provvisto di un campanello dal suono squillante, un cestino molto capiente, i catarifrangenti sulle ruote, i fanali e, soprattutto, era… nuova e gialla! Ogni giorno, finita la scuola, Giovanna correva a casa, prendeva la sua bicicletta dal garage, ci saliva sopra e iniziava a pedalare. Il cortile della sua casa era enorme: la circondava tutta e proseguiva anche dietro il garage. Lì si trovava una rampa per le auto: quello era il posto preferito da Giovanna perché si divertiva a salire e scendere veloce come il vento che le scombussolava i capelli.

Un giorno Giovanna, triste perché i suoi genitori avevano litigato, prese la sua biciclettina gialla e iniziò a girare intorno alla casa e, via via pedalando, si rasserenò. Poi si slanciò giù per la rampa e tutti i suoi pensieri svanirono, si sentì sempre più leggera e, pedalata dopo pedalata, si accorse che la ruota anteriore della bicicletta iniziava a staccarsi dal suolo. Continuò a pedalare e il cortile si allontanò sempre di più: le case diventavano minuscole e le persone sembravano formiche. Dall’alto del cielo poteva distinguere ancora la sua scuola, il campo sportivo lì vicino, l’acquedotto, la piazza principale e il corso d’acqua che attraversava la sua città come un nastro dai riflessi argentati. Anche quello presto svanì e Giovanna si ritrovò sola in cielo con la sua bicicletta gialla. Mentre sorvolava le nuvole, vide uno stormo di rondini e partì all’inseguimento: iniziò a pedalare più forte che poteva finché le rondini si trovarono a poca distanza da lei. La bambina poteva vedere le bellissime e lunghe piume nere, le ali potenti che sbattevano all’impazzata, il petto bianco che le rendeva eleganti e lo sforzo con cui fronteggiavano il vento. Suonò il campanello e gli uccelli, terrorizzati, scapparono da tutte le parti scomparendo tra le nuvole.

Così Giovanna si ritrovò nuovamente sola, immersa nel silenzio e nella quiete di quel luogo. Per sconfiggere la solitudine iniziò a immaginare nella forma delle nuvole degli animali: le sembrò di vedere un cervo dalle lunghe zampe e dalle corna ramificate e un lupo che lo inseguiva. A un tratto vide una macchia di colore, così si avvicinò pedalando e scoprì che si trattava di un aquilone rubato dal vento a un bambino. Era a forma di rombo, rosso fiamma, aveva delle lunghe verdi code che si dimenavano al vento e la corda per trattenerlo era strappata. Giovanna riuscì ad afferrarlo con fatica, lo legò al manubrio della bicicletta e così si sentì un po’ meno sola. Iniziava a essere stanca e pensò di tornare a casa quando udì una voce che gridava: “Ehi tu, sulla bicicletta, vieni qui!”. Giovanna seguì la voce e, con sua sorpresa, trovò un bambino in piedi su una nuvola che si sbracciava per farsi notare. Era poco più alto di lei, aveva i capelli biondi e gli occhi color ghiaccio. Non sembrava tanto felice di trovarsi lì e il suo sguardo era pieno di curiosità. Il ragazzino con gratitudine le disse: “Per fortuna sei riuscita a catturare il mio aquilone! Mi era scappato e non sapevo più come fare per ritornare a terra!”.

Giovanna un po’ perplessa chiese: “Chi sei? Come sei arrivato fin quassù?”. “Mi chiamo Leonardo e stavo provando il mio aquilone quando un pensiero felice mi ha fatto prendere il volo. E tu come ti chiami?”. La bambina rispose: “Giovanna. Ecco il tuo aquilone!”. Il bambino timidamente la ringraziò: “Adesso dovrei tornare a casa, ma potremmo rincontrarci qualche volta, che ne dici?”. Giovanna rispose: “Mi piacerebbe tanto! Magari ci possiamo ritrovare domani qui”. La bambina girò la sua bicicletta, iniziò a pensare alla sua dolce casetta e al suo cortile con la rampa fino a trovarsi proprio lì. Atterrò dolcemente e sentì la mamma che la chiamava urlando: “Giovanna, è pronta la cena!”. La bambina mise in garage la sua bicicletta gialla e le disse: “A domani!”. Poi, sorridendo, varcò la porta di casa.


LA SPOSA BAMBINA – Beatrice Fava (3D)

In un piccolo paesino del Pakistan viveva Mariam, una bambina di nove anni dolce e vivace ma allo stesso tempo forte e determinata che amava trascorrere il suo tempo con gli amici e con la sorellina Aisha. Aveva i capelli neri come la notte è mosso come le onde del mare, gli occhi color nocciola e le labbra rosse come il fuoco, che risaltavano sulla sua pelle bruna.

Mariam viveva in una piccola casetta grigia e cupa dove si respirava sempre un’aria tesa. La mattina Mariam e Aisha si svegliavano con le urla della madre e sbirciando dalla serratura vedevano il padre picchiare violentemente la moglie. Lei si sforzava sempre di sorridere alle figlie per tranquillizzarle, perché pensassero che tutto andava bene… ma tutte e tre sapevano che non era affatto così. Mariam sapeva che un giorno anche lei sarebbe stata costretta a vivere come la madre, sottomessa al marito, aveva paura, paura di essere picchiata, paura di essere costretta a vivere con un uomo che non conosceva, che non amava, paura di perdere la sua libertà.

Un giorno a casa sua arrivò un ragazzo sui vent’anni, il padre di Mariam ordinò alla figlia di mettersi il vestito più bello che avesse. Mariam corse in camera e si vestì il più elegante possibile, poi però, un po’ timorosa, esitò a scendere in salotto, corse dalla madre e le domandò: “mamma che succede? Chi è quel ragazzo?” anche la madre esitava. Mariam sempre più agitata ripeté la domanda con un tono diverso, il tono di chi sa già la risposta alla sua domanda ma in quel momento spera di sentirsi dire qualcosa di diverso.

Mariam non ebbe risposta. Non servivano parole, gli occhi della madre esprimevano tutto il suo dolore, quel dolore che lei stessa aveva provato sulla sua pelle, quel dolore che presto anche sua figlia avrebbe sperimentato. Mariam entrò in salotto dove il padre la stava aspettando per presentarle il ragazzo. Si chiamava Alì, era alto, robusto, aveva la barba e i baffi e la sua faccia incuteva timore in Mariam. il padre, dopo qualche minuto di conversazione con il ragazzo disse alla figlia: “questo ragazzo sarà tuo marito” quelle parole risultarono nella testa di Mariam improvvise e taglienti.

D’un tratto si sentì sprofondare, capì che il suo destino era già stato deciso e non poteva fare niente per cambiarlo. Presto arrivò il giorno del
matrimonio, Mariam era in camera sua a prepararsi per la cerimonia, indossava un abito bianco elegantissimo e delle scarpe di vernice anch’esse bianche, aveva i capelli in parte raccolti e portava una splendida collana al collo. Era bellissima ma dal suo viso traspariva un misto di tristezza e rabbia, non voleva sposare un uomo di cui aveva paura. Subito dopo la cerimonia Mariam fu costretta ad andare a vivere con il marito a chilometri e chilometri di distanza da casa sua.

I due non si rivolsero la parola per tutto il viaggio che durò circa tre ore. Appena arrivati Alì inizio a farsi vedere dalla moglie per quello che era veramente. La povera Marian non poteva permettersi nemmeno di fiatare, doveva fare tutto quello che il marito le ordinava senza obiettare. I primi giorni furono un inferno per la povera bambina che si sentiva triste e sola ma solo dopo si rese conto che l’inferno vero e proprio non era ancora iniziato… Alì inizio a picchiare violentemente Mariam per qualsiasi minimo errore facesse, bastava che gli scivolasse di mano un bicchiere.

La vita per Mariam era diventata insopportabile voleva tornare a casa da sua mamma e da sua sorella ma li glielo impediva, le impediva di vedere la sua famiglia, doveva rimanere lì, chiusa in casa tutto il giorno e subire in silenzio le violenze del marito. Un giorno deciso di scappare per tornare a casa sua, usciti notte e dopo due giorni finalmente arrivò. La madre la accolse con un grande abbraccio ma appena Maria me le disse che era scappata la madre scoppio a piangere e tenta di nascondere la figlia ma era troppo tardi… Alì arrivò, spinse con violenza la bambina sul suo carro e ripartì. Fu quella l’ultima volta che Mariam vide sua madre. Arrivati a casa Alì iniziò a picchiare la bambina fino a lasciarla mezza morta sul pavimento.

Marian passò le ultime ore della sua vita stesa per terra a pensare a come sarebbe stata la sua vita se avesse avuto la possibilità di decidere, come tutte le altre ragazze della sua età.


NON SEMPRE L’ADOLESCENZA E’ COME IMMAGINIAMO di Teresa Monaco (3B)

Il termine ‘adolescenza’ è spesso usato come indicatore degli anni più belli per un ragazzo, quelli più vivi, speciali ed indimenticabili. Ma per noi adolescenti significa questo? No, assolutamente no. Noi usiamo questa definizione per indicare gli anni in cui inizi a considerare gli amici più importanti dei genitori e della famiglia, la reputazione positiva fondamentale e purtroppo anche un bell’aspetto fisico è indispensabile in questo periodo perché chi non rientra nell’ideale di bellezza degli adolescenti viene scartato automaticamente da ogni gruppo, sia sportivo o di amici. Gli adolescenti si dividono in due categorie: quelli felici, spensierati e quelli tristi, ma tanto tristi.

Gli adolescenti felici sono quelli che hanno tanti amici di cui fidarsi, genitori apprensivi e “concessivi”, sono quelli magri, i più belli della scuola e quelli che apparentemente amano la vita. Poi ci sono quelli tristi, ma quelli davvero tristi che si sentono non compresi,s oprattutto dalla famiglia, quelli che trovano sempre mille difetti in sé, quelli che si sentono soli,estranei anche in famiglia, a disagio ovunque, quelli che hanno un peso che preme sul petto e che fa un “male cane”. Sono spesso definiti superficialmente ‘i depressi’, ma forse lo sono davvero, hanno veramente pensieri negativi che occupano la maggior parte della loro mente e non per attirare l’attenzione, ma solo perché il dolore che sentono è più forte della gioia che provano. Dai 12 ai 20 anni è il periodo più difficile e controverso per noi che abbiamo bisogno di continui consigli per superare certe situazioni e per non scappare da questa vita.

Gli adolescenti tristi non sono come voi adulti pensate siano, per niente. Pensano qualcosa e dimostrano il contrario, si vergognano ad esprimere i propri sentimenti, hanno difficoltà ad esporre i loro problemi e così preferiscono tenere tutto dentro, sbagliando! È difficile per noi arrivare a fine giornata senza mai far uscire una lacrima dagli occhi solo per non mostrarci deboli agli occhi degli altri. E voi adulti (quelli che si accorgono che c’è qualcosa che non va) chiedete: “Perché non esci un po’ con gli amici? Perché in casa ti isoli sempre? Perché quando parli lo fai velocemente oppure rispondi in modo essenziale?” Noi neghiamo tutto e fingiamo che ogni cosa vada bene, ma sappiamo che non è assolutamente la realtà. La verità è che non usciamo con gli amici per non sentirci negativamente diversi, ci isoliamo sempre perché ci sentiamo messi da parte in famiglia, parliamo velocemente perché abbiamo talmente tante cose da dire che abbiamo paura di non riuscire a raccontarle tutte con la fretta che avete nell’andare al lavoro e invece rispondiamo essenzialmente alle domande quando stiamo per crollare,quando una parole detta di troppo potrebbe incastrarci e farci scoppiare in lacrime davanti a persone che chiederanno “Perché piangi?”; ovviamente rispondiamo che non è successo nulla , ma vorremmo dirgli che non c’è niente che va come vorremmo, che la notte soffochiamo le lacrime e i singhiozzi con il cuscino per non farci sentire,che proviamo disagio ovunque: a scuola, in famiglia, con gli amici e che l’unica cosa che vorremmo fare è scappare via, lontano da tutto e tutti,dimenticare per una volta le prese in giro dei compagni per il fisico, le battutine che fanno e che a loro divertono molto, ma a noi fanno piangere,ci distruggono,vorremmo dimenticare tutti i difetti che troviamo e scopriamo ogni giorno guardandoci allo specchio.

Vorremmo lanciare lontano questo enorme peso che ci preme sul petto. Vorremmo dimenticare tutto e rifarci una vita. Ma la causa principale del nostro dolore è che vorremmo essere accettati per come siamo, difetti e pregi, perché oggi è difficile trovare persone che ci amino davvero per quello che siamo. Ma di tutto questo, gli adulti, che ne sanno? Se lo ricordano come stavano male loro? E se sì, perché non bussano alla nostra porta di adolescente, aprono decisi, camminano verso di lui, spostano le cuffie dalle orecchie e lo abbracciano forte in modo da fargli capire che loro sono lì qualunque cosa accada?!


OLTRE OGNI DIVISIONE di Raffaella Cirillo (2A)

Recentemente si è aperta una faglia nella foresta. Non so esattamente cosa sia una faglia, ma, da quello che vedo, è una sorta di enorme spaccatura. Si estende da un lato all’altro della foresta. Vorrei vedere fin dove arriva, ma non mi è concesso uscire dalla tribù… A proposito: io mi chiamo Kalì e ho otto anni, vivo in Kenya con la mia famiglia, mia sorella maggiore e mia madre. Scusate tanto, avrei dovuto presentarmi all’inizio, ma la situazione della faglia è una novità per la mia tribù!

Gli adulti pensano possa essere un pericolo per noi anche se secondo me è solo… straordinaria! Fortunatamente il mio villaggio non è stato diviso, ma se prima avevo voglia di scoprire cosa ci fosse oltre il confine della tribù, ora che c’è la faglia a delimitarlo non penso ad altro che non sia uscire di qui e guardare com’è il mondo là fuori. Sono così determinato e curioso di vedere com’è laggiù perché voglio trovare mio padre. È successo quando avevo quattro anni. Un giorno come altri disse a mia madre che sarebbe uscito dal villaggio per svolgere un lavoro importante per la tribù, le diede un bacio e se andò. Non è più tornato. Mamma e Shaila, mia sorella, dicono che è morto, ma io in fondo so che è lì fuori da qualche parte.

Io tutti i giorni vado in una struttura accanto a casa mia: è la nostra scuola, dove impariamo come sopravvivere alle intemperie, come costruire una solida iurta o come realizzare una canna da pesca e un amo per pescare nel fiumiciattolo del villaggio. Dopo la scuola vado sempre a casa di Manù, un mio compagno, a mangiare qualcosa e poi torno a casa. Nel tratto di ritorno mi avvicino molto al confine del villaggio: per il mio progetto di scappare di qui è un percorso perfetto. Sto pensando di andarmene di notte, in modo da non essere visto, esplorare almeno un tratto della faglia e tornare indietro prima del mattino seguente.

Spero di convincere Manù a venire con me, ma penso che non sia nei suoi progetti uscire dal villaggio e infrangere la prima regola della tribù! Domani gli farò la richiesta! Mi addormento tra un mare di pensieri abbandonandomi a un sonno profondo. Sono solo in mezzo alla foresta, vedo la faglia da lontano e comincio a correre in quella direzione. Ad un certo punto sento una voce, una voce familiare che mi chiama: “Kalì… Kalì, figlio mio, sono papà! Sono qui, cercami e mi troverai”. Mi sveglio grondante di sudore con le urla di mia madre che bussa alla porta della mia stanza: “Kalì, svegliati! È tardi!”. “Arrivo, mamma!”. Mi preparo e arrivo di corsa a scuola. Quel maledetto sogno non fa altro che tormentarmi, così dopo la scuola lo racconto a Manù e gli chiedo se vuole venire con me fuori dal villaggio.

Questa è la sua reazione: “E tu credi che quel sogno significhi qualcosa? Che tuo padre sia veramente là fuori da qualche parte e mi chiedi di aiutarti a cercarlo?”. “No, non ti chiedo di aiutarmi a cercarlo, ti chiedo solo di venire con me la prossima notte per esplorare il primo tratto della faglia. Tu non sei curioso di sapere com’è?” gli rispondo. “Curiosità non è suicidio! Tu non sai quali sono i rischi di un’azione del genere: non conosci gli animali che vivono nella foresta, protesti essere catturato da un’altra tribù, per non parlare della nostra di tribù nel caso qualcuno ti scopra! E ora vattene! La tua idea è folle!”. Me ne andai di corsa. Era ovvio che un tipo come Manù non avrebbe mai approvato il mio progetto. Lui era l’unico di cui mi potevo fidare, ma, a quanto pare, ci andrò da solo… Stanotte! Appena arrivo a casa, preparo il necessario per l’escursione: in un sacco ripongo una corda e dei bastoni per accendere il fuoco. Nascondo il sacco sotto alla brandina sulla quale dormo e aspetto che anche mia sorella torni da scuola. Dopo cena mi accascio sulla mia brandina.

Aspetto che mia madre e mia sorella stiano dormendo per afferrare il sacco da sotto il letto e sgattaiolare fuori casa con passo felpato. Comincio a camminare in direzione della faglia; una volta arrivato al confine del villaggio, faccio un respiro profondo e scavalco la staccionata. Sono fuori dal villaggio. Proprio così, oggi per la prima volta sono fuori dal villaggio! È una sensazione spettacolare: sono libero! Corro. Gli alberi intorno, il vento fresco e delicato tra i capelli e la libertà: penso di non essermi mai sentito meglio. A interrompere questo momento magnifico è il pensiero di una persona speciale, mio padre. Improvvisamente un’emozione nuova, mai provata mi pervade: è la speranza, la speranza di poter ritrovare mio padre e riabbracciarlo. Ed ecco che comincio a correre più veloce. Arrivo di fronte alla faglia. È un’immensa spaccatura nel terreno che si estende all’infinito. Tra le due sponde vi è una voragine di cui non vedo la fine da quanto è profonda. Decido di attraversarla per giungere dall’altro lato, ma è troppo larga per farlo con un salto.

Così, comincio a legare con la corda due bastoni larghi che trovo per terra. Li appoggio sul suolo e azzardo un primo passo. Pian piano arrivo dall’altra parte. Appena sceso dai bastoni, guardo dietro… Sono riuscito ad attraversare la faglia! Questo non era in programma, ma mi prometto che vado avanti solo un altro piccolo tratto e poi torno indietro. Un fulmine mi sorprende. Un fulmine? Qui in Kenya i temporali sono rarissimi e ancor di più lo sono i fulmini! Fatto sta che un fulmine si abbatte sulla faglia scagliandomi indietro. Il boato è tale da lasciarmi incosciente per un secondo. Mi rialzo e, seppur frastornato, comincio ad allontanarmi. Molte volte mamma o Manù mi avevano raccontato delle leggende su cosa ci fosse oltre il confine: foresta, alberi e un’infinità di torrenti.

Ma, camminando, mi inoltro in tutt’altro. Entro in un villaggio molto simile al mio, ma più arretrato. Non vi sono la scuola, il pozzo e alcune abitazioni, ma… che strano: tutto il resto è posizionato come nel mio villaggio! Mentre percorro un sentiero cercando di non farmi vedere dagli abitanti stando piegato sulle ginocchia, sento una voce che mi chiama da lontano. Qualcuno che mi chiama? Mi allarmo all’istante. Sarà qualcuno della mia tribù che è venuto a cercarmi. Accipicchia! Oppure… potrebbe essere qualcuno di questo villaggio. Mi giro e vedo un ragazzino che avrà più o meno la mia età. “Ciao, io sono Kalì” gli dico gesticolando, dato che conoscerà un’altra lingua. “Sì, sì anch’io parlo la tua lingua” mi risponde lui ridendo. Poi aggiunge: “Io mi chiamo Joseph”. “No, no aspetta. Com’è possibile? Ogni tribù ha una propria lingua. Ne sono sicuro!”. “Be’, magari qualcuno della tua tribù ha insegnato la tua lingua alla mia o viceversa”. “No, non è possibile: nella mia tribù la prima regola è non uscire dal villaggio… Aspetta, come hai detto di chiamarti? Joseph? Anche mio padre si chiama Joseph!”. Poi lui dice: “Anche nella nostra tribù vogliono scrivere le regole sulla tavola di pietra, ma ancora non hanno fatto nulla”.

Mi siedo sull’erba per ragionare un attimo: i fulmini sono molto rari in Kenya, la tribù oltre la faglia è uguale alla mia tranne per alcuni particolari e parla la stessa lingua della mia, il ragazzo di fianco a me ha lo stesso nome di mio padre e anche nel mio villaggio le regole sono scritte su una tavola di pietra. Che coincidenze! Ma certo: sono nel passato! Questo vuol dire che… Joseph è mio padre! Ho trovato mio padre! Mi alzo di scatto, lo abbraccio velocemente e me ne vado correndo. “Aspetta, Ka… Kalì! Dove vai?” mi grida lui mentre mi allontano rapidamente. Quali possono essere le conseguenze? Penso. Ecco perché la regola di non superare il confine era così importante! Ma almeno ho trovato mio padre.


UNA STRANA SERATA AL CIRCO di Carlotta Mazzoni (2A)

Ho sempre amato il circo, sin da piccola. Finalmente era arrivato anche a Casalmaggiore e insieme alle mie amiche avevamo deciso di andare a vedere lo spettacolo notturno delle 23.00. Il cielo era strano, illuminato da una luna che sembrava spenta. Arrivate alla cassa per acquistare il biglietto, ebbi una strana sensazione: qualcosa mi sembrava insolito. Se guardavo la cassiera, in certi momenti mi sembrava umana, in altri aveva il volto da strega. Il naso aquilino, il taglio degli occhi all’ingiù, la pelle tutta accartocciata e quei pochi capelli tutti di colore bianco e grigio le conferivano un aspetto inquietante. Pensai che forse era la mia immaginazione e feci finta di nulla.

Attraversammo un lungo corridoio per arrivare alla platea e mi accorsi che c’era qualcosa che non andava. Sulle pareti vidi dei quadri che ritraevano delle persone che conoscevo: in uno era dipinto un bambino di nome Ivan, con un’ascia conficcata in mezzo alla fronte, in un altro il mio vicino di casa impiccato. L’aria era fredda e le luci si accendevano e spegnevano continuamente. Cominciai ad avere paura e chiesi alle mie amiche se anche loro avevano notato quei particolari decisamente poco rassicuranti. Ci accomodammo in platea, proprio nella prima fila. Iniziò lo spettacolo, le luci si spensero, ma, quando si riaccesero, non vidi più nessuno: l’unico spettatore ero io.

Iniziai a chiamare le mie amiche, ma nessuna rispondeva. Balbettavo dalla paura, quando all’improvviso, in mezzo al circo, apparve un pagliaccio, un uomo con il corpo da umano, ma con la faccia di un mostro. I suoi occhi erano infuocati e aveva un grosso naso ricurvo. L’uomo iniziò a chiamarmi invitandomi ad avvicinarmi a lui. Tremavo tutta, i miei occhi erano annebbiati e il cervello confuso dalla paura. Sudavo e non riuscivo a pensare a nulla che potesse mettermi in salvo. All’improvviso, mentre quell’essere mostruoso mi rincorreva, vidi una lunga scalinata che conduceva in tribuna. Iniziai a correre per le scale, mentre l’uomo m’inseguiva.

I gradini non finivano mai, non vedevo più nulla e non sapevo cos’avrei potuto trovare in cima alla scala. Correvo velocissima. L’uomo riuscì ad afferrarmi per un piede e a trascinarmi indietro verso di sé.. Mi trovai stesa a terra. Tirai un calcio per liberarmi da lui, ricordo qualcosa che mi colpì in testa, non capivo più nulla e persi i sensi. Sentivo il sangue caldo scorrermi sul viso e, quando mi ripresi, mi ritrovai dentro un burrone, stesa lungo la riva di un fiume. Mentre lentamente cercavo di togliere le alghe che avevo sul volto, vidi in lontananza una barchetta con un uomo. Subito pensai: “Quella è la mia unica salvezza!”.

Raccolsi tutte le mie forze e a nuoto raggiunsi la barca. L’uomo, che indossava un lungo mantello e aveva il volto semicoperto dal cappuccio, mi aiutò a salire. Appena gli diedi la mano per farmi aiutare, lo vidi in faccia e mi accorsi che… era l’uomo mostruoso che mi aveva inseguita! Il cuore iniziò a battere velocissimo, mi venne l’istinto di buttarmi dalla barca, ma quando guardai in basso, invece del fiume, vidi un vuoto profondissimo. Pensai: “Se mi butto, muoio”. Non sapevo più cosa fare, l’uomo rideva come un pazzo e mi diceva: “Ora ti porterò con me e non farai più ritorno a casa!”.

La paura di morire era tanta, ma non volevo restare tutta la vita prigioniera di quell’uomo. Decisi e mi buttai…
Vidi poi i miei compagni di classe e la prof. di Lettere che tornavano a scuola dalla mensa. Realizzai che avevo avuto un incubo. Ero tutta bagnata dal sudore, impaurita e, nonostante fosse stato solo un sogno, giurai che non sarei più andata al circo.


IL LIBRO MAGICO DI PETER di Stefano Lin (2A)

Ciao! Sono Peter e oggi vi racconterò la mia storia. Siete pronti? Allora… Il 30 Ottobre ero per caso (neanch’io so il perché) in un bosco. La notte era molto fredda e c’era una grande bufera. All’improvviso comparve davanti a me qualcosa di magico, uno scintillìo multicolore… Era un libro… Quando cercai di afferrarlo, il libro mi portò in un posto sconosciuto davanti a una porta e intanto mi parlava: “Questo luogo è pieno di persone normali come te e di altre, invece, che sono magiche!”. Prima di entrarvi, mi girai e non vidi più la bufera, ma solo una foresta illuminata dai raggi del sole… Mi rigirai, aprii la porta e… subito arrivò un uomo barbuto con i capelli rossi che disse con aria festosa: “Io sono Steph e sono il proprietario di questa locanda”. Dopo queste parole, il libro comparve tra le mie mani, come per magia! Steph disse che il libro che avevo in mano si intitolava “MagicStones”… Appena ebbe pronunciato queste parole, sul libro comparve proprio la parola “MagicStones” che prima non c’era. Entrato nella locanda, vidi goblin, troll, cavalieri e altri personaggi del mondo fantasy. Un troll verde mi si avvicinò e mi disse: “Bulbrulbrulbrul!”. Steph, vedendo il mio sconcerto, mi diede una specie di auricolare che traduceva tutto; me lo misi e iniziai a capire quello che diceva il troll verde: si chiamava Moll e voleva combattere una battaglia con me… Ma perché???

DRIIIINN!!! Suonò la sveglia e mi svegliai di colpo: questo non ci voleva! Capii che era solo un sogno, ma sembrava così vero… Infatti il giorno dopo… Era Halloween e io mi ero travestito da troll, come quello del magico sogno. Arrivata la notte, mi preparai con il sacchetto per le caramelle e partii per fare “Dolcetto o scherzetto” con i miei amici travestiti da stregoni, mummie… Ma la cosa che più attirò la mia attenzione fu il travestimento del mio migliore amico Alex: era un barbuto assomigliante a Steph, il proprietario dell’albergo del mio sogno. Andammo per le case a prendere i dolcetti e ne raccogliemmo in grande quantità. Alla fine della via vedemmo un albergo assomigliante a quello del sogno, ma dentro c’erano persone, camerieri e il proprietario travestiti da personaggi fantasy proprio come quelli del sogno. C’era anche un libro intitolato “MagicStones”…

Io e il mio amico stavamo per entrare quando un tizio ubriaco si avvicinò a noi e ci disse che non potevamo alloggiare da soli nell’albergo e quindi ce ne andammo. Però ad Alex venne un’idea così folle che sembrava ubriaco anche lui: andare di nuovo in quell’albergo a mezzanotte ed entrarvi di nascosto. Per la curiosità di vedere l’interno dell’albergo accettai, mentre gli altri non accettarono l’ideona di Alex perchè non potevano restare fuori fino a mezzanotte. Eravamo solo io e Alex. Erano le 23:59 quando ci avvicinammo all’albergo. Suonata la mezzanotte, ci ritrovammo dietro
l’albergo dove entrammo molto facilmente perchè non c’era nessuno. Dopo essere passati davanti alla cucina, salimmo le scale per il primo piano ed era bellissimo: tante stanze lussuose e un ristorante grandissimo. Ritornammo al piano terra e vedemmo che in quell’albergo c’erano tantissimi personaggi famosi provenienti da tutto il mondo….

DRIIIIIIIN!!! Mi svegliai di colpo… Mia madre urlava come una leonessa infuriata da dieci minuti… Feci colazione, mi lavai subito i denti e preparai lo zaino velocemente. Per poco non arrivai in ritardo a scuola! Dopo le lezioni, mi ritrovai con gli amici a fare un gioco scoperto da Alex sul cellulare: quel gioco si chiamava “MagicStones”, lo stesso nome (che coincidenza!) del libro del sogno. Dopo averci giocato, capii che il gioco era identico al sogno stesso e, come in ogni gioco, c’era il tutorial presentato da… un troll! Ovviamente io arrivai primo fra tutti perchè avevo già capito il meccanismo del gioco!


Nazzareno Condina

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