Cronaca

Gian Pietro Bianchi, una vita tra famiglia e medicina. La pensione ed il ritorno in Africa

Ma quel che in fondo resta la cosa più bella da raccontare, è la stessa volontà di andare avanti, ripartendo (o continuando) dall'Africa e dai suoi ospedali. Iniziando dai prossimi sei mesi e guardando sempre avanti, ma non troppo

CASALMAGGIORE – Ha dormito in Sierra Leone con i carri armati davanti alla porta e camminato, in Somalia, scortato dai soldati con tanto di Kalashnikov. Ma in fondo ha sempre fatto il medico, e alla stessa maniera perché poi la professione non cambia. Cambiano le situazioni, cambiano le strutture e le disponibilità di attrezzature mediche. Ma il lavoro no. Gian Pietro Bianchi, attualmente responsabile del Pronto Soccorso di Oglio Po va in pensione. Una piccola (per modo di dire) festa in famiglia: una moglie, cinque figli e sette nipoti, più uno in arrivo, qualche settimana di riposo e poi ancora via, verso l’Africa. Andrà a lavorare in Sierra Leone, in un progetto dell’ONG Cuamm (Opera San Francesco Saverio) di Padova nel complesso materno-infantile di Pujehun. Nessuno stop dunque. Perché anche la professione medica è una vocazione. E l’Africa Gian Pietro Bianchi la conosce. E perché “Fare il medico in Africa è come farlo in Italia, un cesareo é un cesareo in ogni luogo”.

Gian Pietro Bianchi è nato il 21 febbraio del 1954, 65 anni compiuti. Si è laureato in Medicina e Chirurgia a Parma  nel 1982. Cinque anni dopo prende la specializzazione in Chirurgia Generale sempre nella città Emiliana. Lavora per gli Istituti Ospitalieri di Cremona dal 22 aprile del 1986, ha iniziato come assistente di chirurgia generale, poi nel 1994 aiuto chirurgo
e dal primo aprile 2012 è responsabile del Pronto Soccorso di Oglio Po. In mezzo a questo l’esperienza Africana: dal giugno 1994 al giugno 1995 responsabile chirurgia Ospedale Missionario di Tabaka (Kenya), dal giugno 1995 al giugno 1996 responsabile medico campo profughi Mugunga e Kibumba, ospedale Goma e Bukavu (Zaire, progetto UE agenzia COOPI), dal giugno 1996 al giugno 1997 responsabile medico Ospedale Erigavo (Somalia, progetto UE agenzia COSV), dall’agosto 1998 al novembre dello stesso anno responsabile medico Ospedale Freetown (Sierra-Leone, progetto UE agenzia COOPI). E’ poi tornato in Africa, in Kenya, nei periodi di ferie negli ultimi cinque anni, per fare il suo mestiere. Tornerà anche ad agosto.

Gian Pietro Bianchi è stato in Zaire nel periodo successivo al genocidio Ruandese, quando i profughi della mattanza tra Hutu e Tutsi si riversarono in campi nei paesi limitrofi come appunto quello di Mugunga e Kibumba. Nonostante la situazione delicata e l’emergenza il medico non ha mai avuto paura. Nonostante tutto: “Se hai paura vieni a casa, o non parti neppure. Non ho mai avuto paura di nulla. Noia e paura sono sentimenti che in Africa non ho mai provato. Qui in Italia abbiamo tutto e c’è spazio per la noia perché non ne abbiamo mai abbastanza, in Africa non esiste la noia, pur non essendoci niente”. In Africa, nei progetti di emergenza, è sempre andato in compagnia della moglie mentre nei paesi dove si portavano avanti progetti di sviluppo a seguirlo erano anche le tre figlie piccole. “In Somalia, paese islamico ed integralista, il mio lavoro era molto apprezzato. Mia moglie non accettava di portare il velo. Io cercai di spiegargli che essendo in un paese con quel tipo di regola avrebbe dovuto cercare di adattarsi. Non si adattò mai, e qualche volta per strada le tirarono le pietre. Io giravo con quattro uomini armati di Kalashnikov di scorta anche se non ho mai corso reali pericoli. Sentivo anche in quel paese dalla forte tradizione mussulmana di essere apprezzato per il mio lavoro. Certo, devi capire che se sei in un paese con i suoi problemi devi adattarti e prendere tutte le precauzioni. I rischi comunque ci sono ma tanto dipende dall’approccio che hai nel paese in cui sei. Se vai magari in qualche paese in cui non hanno nulla, e magari entri con la tua bella macchina fotografica e il bell’orologio al polso in qualche posto dove sai che qualcosa può succedere sei tu che corri dei rischi e se ti rapinano sai già che può succedere”.

Ad agosto la Sierra Leone. Un progetto di sei mesi. Ci andrà probabilmente con uno dei figli. Neppure l’ebola lo spaventa perché – per chi come Bianchi ha un metodo d’analisi e di ragionamento scientifico – i problemi e le questioni si affrontano con rigore: “L’ebola c’è da sempre. La prima volta che fui in Sierra Leone, entravano ragazze con febbre e diarrea. E morivano. Era l’ebola, i sintomi sono quelli. Ci sono poi periodi in cui l’incidenza è maggiore, ed altri in cui è minore. Ci vogliono tanti morti per sentire parlare dei problemi, ma i problemi ci sono anche quando non se ne parla. I problemi sanitari dell’Africa, visti da qui, non sono altro che numeri ma dopo che sei stato là le persone sono persone e non più numeri. In Sierra Leone c’è personale medico e sanitario molto bravo e preparato, cambiano solo gli strumenti a disposizione anche se poi ogni situazione è diversa da un’altra. Partirò per sei mesi, anche perché non riesco a programmare oltre. Sarò responsabile dell’ospedale Materno Infantile, non è la mia specialità ma gli interventi ostetrici e i cesarei li ho sempre fatti e li so fare, e li farò anche lì”.

“Fare il medico in Africa non è diverso dal fare il medico in Italia. Se mi chiedi cosa è cambiato in Africa rispetto agli anni ’90 mi viene da dire che è cambiato poco o nulla. L’Africa è sempre uguale. Sono stato qualche tempo fa in Kenya, nell’ospedale in cui ero già stato negli anni ’90. Sono entrato nella sala operatoria dove avevo operato allora e c’erano le stesse tende, gli stessi buchi alla finestra, le stesse attrezzature poste dove erano allora”.

Ci sono valori che fanno dell’Africa una terra unica: li ha vissuti, il medico, nella sua esperienza: “Gli anziani, ad esempio. Per loro non sono un peso. Non esistono le case di riposo in Africa. L’anziano è un membro importante della famiglia e nella famiglia vive sino alla fine. In Kenya, ad esempio, viene insegnato che se sei sulla strada e sei più giovane non devi superare un anziano anche se va lento. E’ una questione di rispetto”.

Non c’è solo la terza età ad aver colpito Bianchi. Il senso della morte è un altro valore che il dottore ricorda: “Noi, nella nostra cultura, allontaniamo la morte. Della morte non si deve parlare, va accantonata. Per noi è un evento straordinario, in Africa è un evento ordinario, è parte della vita e viene accettata come tale. La cultura africana è una cultura lenta. Voi bianchi, mi dicevano lì, correte verso la morte, noi ci arriviamo pian piano, l’aspettiamo”.

In Sierra Leone Gian Pietro Bianchi ha conosciuto padre Vittorio Bongiovanni, missionario Saveriano cremonese. Un aneddoto – un miracolo come lo chiama lo stesso dottore – val la pena di essere raccontato. “Ho vissuto per qualche mese, a casa sua. Mi raccontavano che un giorno nella missione si presentò un gruppo di uomini armati, di ribelli, per depredare la struttura stessa. Il loro interesse fu attratto da un vecchio pick up, l’unico mezzo fondamentale in dotazione della missione. Cercarono di portarlo via in ogni modo, prima cercando di accenderlo, poi cercando di spingerlo senza alcun successo, poi lo legarono con una catena ad un altro mezzo, e la catena si ruppe. Da una delle finestre il padre anziano stava seguendo tutte le operazioni in preghiera, ben consapevole dell’importanza del mezzo. Alla fine quegli uomini armati dovettero andare via ed il pick up rimase lì. Quando se ne furono andati il mezzo venne spostato a spinta senza alcuna fatica dal personale. Un vero miracolo”.

Un altro aneddoto sulla religiosità in Sierra Leone lo racconta il chirurgo: “C’era una bambina che abitava fuori Makeni e nei festivi si faceva la strada a piedi per venire a partecipare alle funzioni religiose nella missione. Le funzioni religiose in africa sono fatte anche di danze e canti, è la loro maniera di vivere la fede. Quella bambina era figlia di madre e padre mussulmani ed i missionari conoscevano la sua famiglia e si meravigliarono di quella presenza costante. Erano funzioni in cui si danzava, e subito i padri pensarono che era per quello che la bambina partecipava. Uno dei padri decise un giorno di avvicinarla per ringraziarla di venire a danzare lì nella missione. La bambina lo ha guardato negli occhi e ha spiegato che lei non era lì a ballare per se stessa o per chi era lì, ma per Gesù. Ecco, in una storia come questa c’è tutto il senso della fede. Anche il padre che me la raccontò mi disse che non avrebbe potuto parlare di Dio in maniera migliore e più convincente di quella bambina”.

C’è tempo anche per qualche considerazione sull’esperienza in Italia. Dal 2012 il dottor Bianchi è l’unico responsabile del Pronto Soccorso dell’Oglio Po: “Tutti i medici – ci spiega – combinano guai. Qualche errore lo si fa sempre, ma sono sempre errori involontari. Lavorare in un pronto soccorso poi non è per nulla semplice. La medicina, negli ultimi dieci anni ha però fatto passi da gigante e la sanità è cambiata tantissimo. Basta pensare agli infarti o agli ictus, ad esempio. Se un paziente viene colpito da un Ictus, con un’AngioTac siamo in grado immediatamente di capire dove è il problema ed intervenire, stessa cosa si può dire per gli infarti, si interviene e si rimuove il problema in poco tempo. Nella mia professione ho sempre avuto la fortuna di lavorare con altri medici estremamente preparati e ancor di più la fortuna, che considero ancor più importante, di aver lavorato con personale infermieristico assolutamente in gamba. A loro va il mio grazie più grande. Ho sempre cercato di impostare i rapporti con i miei colleghi e con i pazienti in maniera quasi familiare. Il benessere tra il personale e quello del paziente è molto importante. Ora che andrò in pensione resterà solo un medico del Pronto Soccorso in Oglio Po, prima eravamo in due io, responsabile medico, ed un collega e ci dividevamo i turni ed adesso è impensabile che un solo medico possa gestirsi tutto da solo. Ma vorrei anche rassicurare sulle voci che parlano di una chiusura del Pronto Soccorso. Il Pronto Soccorso non chiuderà di notte, il nostro non fa parte di quelli compresi nella delibera regionale”. Discorso diverso per la Pediatria, a rischio chiusura: “Se il reparto ha un solo paziente, difficile pensare che i costi di gestione possano essere sostenibili. Piuttosto bisognerebbe chiedersi perché tanti vanno a farsi curare altrove”. Sulle liste di attesa e sui numeri chiusi: “E’ un sistema insostenibile, perché se un paziente il problema ce lo ha adesso difficile pensare che possa essergli utile attendere 4 mesi per fare un esame o farsi visitare. Le liste d’attesa non dovrebbero esistere, per nessun servizio sanitario. Uno ha un problema, va in ospedale o dal medico e si fa visitare senza mettersi in lista. Anche il sistema del numero chiuso all’università è un sistema anticostituzionale. Dovrebbe valere la volontà di studiare, e il merito. La selezione la fa proprio la volontà e il convincimento dello studente di arrivare sino in fondo. Perché impedire a chi vuole fare questa professione di poterla fare?”.

Si potrebbe scrivere un libro solo lasciandolo parlare liberamente. Tanti anni di esperienza (“E’ una cosa che conta, anche se in alcuni casi non ci viene riconosciuta”), tanti anni di pazienti (solo di pronto soccorso, come ci dice lo stesso Bianchi, una cifra vicina ai 100 mila) e tanti anni di vita. E’ importante sottolineare che tutte le scelte fatte sin ora sono state ‘scelte familiari’ e mai decisioni prese senza l’avallo e la condivisione con la famiglia. Ed anche questa volta è così. Non partirà solo il chirurgo per la Sierra Leone, porterà con se uno dei figli e forse la moglie lo raggiungerà se si riuscirà ad organizzare in tutto: “Perché sei mesi – come ci dice prima di salutarci – sono comunque tanti”. La leggi nei suoi occhi e nelle sue parole la volontà di partire ma anche quella di farlo con il consenso, e magari la presenza, delle persone che ama. I primi incarichi in Africa sono sempre stati con famiglia al seguito. Una dimensione, quella familiare, che per il dottor Bianchi è di primaria importanza.

Ma quel che in fondo resta la cosa più bella da raccontare, è la stessa volontà di andare avanti, ripartendo (o continuando) dall’Africa e dai suoi ospedali. Iniziando dai prossimi sei mesi e guardando sempre avanti, ma non troppo. Il dottor Gian Pietro Bianchi va in pensione. Ma non ci va davvero. Ci sono ancora tanti passi da fare sulla strada, c’è la famiglia, i figli, la moglie ed i nipoti. E tanti pazienti da incontrare, con l’umanità di sempre.

Nazzareno Condina

 

 

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