Motta Baluffi, si è spento a 93 anni il partigiano Omobono 'Mobino' Maglia
Dopo la guerra “Mobino” si è dedicato alla lavorazione del ferro, di cui era un maestro. Ci raccontò delle sue avventure in guerra, di cui conservava il ricordo di un proiettile nel braccio

MOTTA BALUFFI – Non l’ha fermato la seconda guerra mondiale, e non ha mai smesso di difendere la Liberazione come patromonio dell’Italia intera, e non solo di una parte politica, per questo rinunciando sistematicamente a partecipare agli eventi del 25 aprile. Omobono “Mobino” Maglia (che vediamo nella foto proprio con don Franzini) è morto giovedì all’età di 93 anni. Padre di Jim Graziano e di Antonella (la moglie è Clara Luzzara), 5 anni fa ci occupammo di lui dedicandogli una pagina intera, decisamente meritata per raccontare la sua vicenda di partigiano che al termine del conflitto ricevette l’attestato di patriota dal comandante supremo delle forze alleate del Mediterraneo, l’americano Harold Rupert Alexander. Dopo la guerra “Mobino” si è dedicato alla lavorazione del ferro, di cui era un maestro. Ci raccontò delle sue avventure in guerra, di cui conservava il ricordo di un proiettile nel braccio, dalla fuga da un treno diretto in Baviera a 17 anni all’adesione ai partigiani della 3ª Brigata Garibaldina L. Ruggeri”.
Anche quest’anno la ricorrenza del 25 aprile ha diviso più che unire. Pure nella nostra provincia non ci siamo fatti mancare le polemiche: partiti non invitati ufficialmente a sfilare nei cortei e che hanno accusato la sinistra di volersi appropriare di un patrimonio di tutti, saluti romani al cimitero cremonese per commemorare le vittime fasciste, e via di questo passo, come ogni anno.
A quasi un secolo da quei giorni il clima di tensione non si attenua, anzi a mano a mano che il numero dei testimoni di quella straordinaria pagina di lotta per la libertà si assottiglia, le polemiche sembrano crescere.Forse è per questo che, dopo anni di silenzio, un partigiano, che ancora con-serva gelosamente il “certificato di patrio-ta” firmato da Harold Rupert Alexander, comandante supremo delle forze alleate del Mediterraneo, ha voluto uscire allo scoperto, per invitare a far sì che questa importante ricorrenza sia patrimonio di tutti.
Il suo nome è Omobono Maglia, di professione, più che fabbro, artista nella lavorazione del ferro quest’anno compirà 89 anni e vive a Motta Baluffi con la moglie Clara Luzzara, con la quale in settembre festeggerà i 65 anni di matrimonio, che gli ha dato i figli Antonella, insegnante,e Jim Graziano, noto regista, attore e pedagogista teatrale.
Maglia inizia il racconto di un minorenne trovatosi ad affrontare una vicenda più grande di lui: «Avevo 17 anni e mezzo – attacca – e lavoravo come fabbro in una ditta di Cingia de’ Botti, dove vivevo con la famiglia. Eravamo nell’estate del ’44, e la Germania in difficoltà, per riuscire a produrre armi, chiese la disponibilità del 25% dei lavoratori del settore. Io fui tra questi, così che fui messo su un treno diretto a Monaco di Baviera. All’altezza del Seminario di Cremona però mi gettai dal convoglio, nonostante la brigata nera fosse pronta a sparare coi fucili».
Inizia così la storia del partigiano, che non si allontanò mai troppo dalla sua terra. «Ero solo, mi recai da una famiglia cremonese che conoscevo che stava ospitando anche due carabinieri e un soldato che avevano disertato. Dormimmo nascosti qualche notte, poi tornai a Cingia dove, con altri due ragazzi, ci unimmo ai partigiani della “3ª Brigata Garibaldina L. Ruggeri”.
Dormivo in un forno vicino a Pieve Gurata, le prime operazioni riguardavano le consegna di armi. Cambiammo più volte posto per la presenza dei tedeschi: un paio di SS in sidecar una notte mi presero mentre mi recavo dai miei genitori, fortunatamente riuscii a nascondere chi fossi davvero.
Giravamo sempre armati, spostavamo armi di vario tipo, anche mitragliatrici, ad alcuni di noi capitava anche di vestirsi da tedeschi». Giunti a ridosso del 25 aprile, i giorni più sanguinosi: «Ci dissero di uscire allo scoperto il 24 aprile, e furono momenti difficili da raccontare. Assieme a un altro partigiano assalimmo la caserma della Milizia, e arrestammo 4-5 militi: lui arrivò da dietro e sparò in aria, io intimai di deporre le armi, cosa che per fortuna fecero. Li facemmo prigionieri. Passa mezzora e arriva un motocarro con a bordo due tedeschi. Avevo con me moschetto e rivoltella, li fermai e li portai assieme agli altri prigionieri.
Nel tardo pomeriggio transita un camion pieno di tritolo condotto da un tedesco. Giunto davanti alla scuola, una fucilata lo colpì ad una gamba. Lui riuscì a fuggire. Un civile di Cingia andò verso di lui che però lo uccise con la pistola». Si trattava di Pierino Tonna. Aveva 42 anni e oggi a Cingia gli è dedicata una via. Anche nei giorni successivi ci furono caduti in combattimento.
«Quel tedesco, nonostante la sete di vendetta, fu portato in ospedale. Anni dopo arrivarono a Cingia alcuni suoi familiari per cercare le sue tracce, chissà che fine ha fatto. Per quanto mi riguarda, a conti fatti me la cavai con un proiettile in un braccio, colpito da un nemico alla finestra».Oggi a Omobono Maglia restano quei cimeli di carta da cui traspare il tempo trascorso. «Assieme al certificato di patriota ricevetti 5000 lire in segno di assistenza e la comunicazione che in caso di bisogno avrei potuto avanzare richieste, cosa che non ho mai fatto».
La tessera di partigiano indica il grado sappista (membro della SAP, Squadra Azione Patriottica). «Tutte le altre tessere le ho bruciate, un po’ per rabbia. Io non ho mai tenuto troppo a raccontare la mia storia, per rispetto e per pudore. Non mi piacciono le speculazioni politiche sul quegli avvenimenti, come non ho sopportato quei saluti fascisti al cimitero di Cremona: sono intollerabili.
Io sono sempre stato uno spirito libero, contrario alla politicizzazione. Mi sento ancora oggi di gridare a tutti “viva la libertà e la pace”». Le manifestazioni del 25 aprile oggi Omobono Maglia le guarda solo in tv, sempre nel segno della libertà individuale: «Se le celebrazioni le facessero senza bandiere sarebbe meglio».
Vanni Raineri