Cronaca

La Sconosciuta Compagnia. Mattia e Margherita e la voglia di tornare al proprio lavoro

E di ricominciare un viaggio, fatto di dignità e lavoro, fatto di famiglie, di pizze, di sorrisi. Mattia e Margherita sorridono, anche se forse con un po' più di stanchezza nell'anima. GUARDA IL SERVIZIO TG DI CREMONA 1

VICOBELLIGNANO – La sala è vuota: spiccano i tavoli senza tovaglie e bicchieri, senza piccoli vasi di fiori ad aspettare vita. Arredata con estremo garbo e semplicità, sono il bianco e i colori tenui a dominare. Ma la caratteristica più peculiare è quella immensa vetrata che dà sulla strada. Un tempo i locali che accolgono ‘La Sconosciuta Compagnia’ erano quelli della salumeria Adorni. E il ristorante pizzeria sembra uno di quei locali appoggiati alla via Emilia. Quelli dove vai con la famiglia o anche solo, in pausa lavoro, e guardi fuori tra un pensiero e l’altro, tra un piatto e un altro di portata.

Conserva quella poesia delle cose semplici pur essendo in verità un ristorante piuttosto moderno. Giovane è chi lo guida. Mattia Arcari, insieme a Margherita Griffini, lo prelevarono nel giugno del 2019. “Mi sentivo pronto e volevo qualcosa di mio – ci spiega Mattia, pensieri grevi in un viso da ragazzo – e dopo la scuola alberghiera e la gavetta è capitata questa occasione. Mi sembrava quella giusta”. Le cose, per Mattia e Margherita cominciarono da subito ad andare bene: nei weekend un centinaio di coperti a sera, una cinquantina nei giorni feriali. “La nostra clientela? Diversificata. A mezzogiorno soprattutto i pasti di lavoro, alla sera soprattutto le famiglie o gli amici”. Nel locale sono in sei. Oltre a Mattia e Margherita una signora di una sessantina d’anni e tre giovani, 38, 39 e 20 anni. Tutti dipendenti.

Sembra una storia bella, di quelle che hanno sempre un lieto fine. Ma il lieto fine al momento non c’è. A ‘scompigliare’ le parole della storia e la poesia il Covid, il lockdown e la gestione convulsa di aperture e chiusure da parte di uno stato che per tanti versi li ha lasciati soli. “Chiusi da un giorno all’altro – spiega Margherita – e quando iniziò il primo lockdown mi ero detta che comunque, se lo stato ci avesse assistito e visto che era necessario affrontare quella prova, la chiusura non avrebbe poi pesato più di tanto. Oggi posso dire che, visto che lo stato non può assisterci, almeno ci faccia lavorare. Non vuole essere la mia una polemica contro lo stato e quello che non c’è: sono tante le persone a cui dare aiuto che probabilmente non ce n’è per tutti. Ma devono consentirci di lavorare perchè non ci sono altre strade”.

Tre mesi di chiusura, il ricorso alla cassa integrazione per i dipendenti, l’asporto. “Anche se – prosegue Margherita – non si può pensare che l’asporto sia la soluzione. Noi abbiamo una parte di clienti che hanno utilizzato il servizio di asporto ma non si può pensare che un’attività come la nostra possa vivere di quello, come non si può pensare che un locale come il nostro possa vivere solo del mezzogiorno”. A giugno l’incubo sembrava aver avuto fine: “In estate – spiega Mattia – ci siamo un po’ ripresi. Non abbiamo guadagnato, ma almeno ne avevamo abbastanza per pagare le spese. Ci siamo adeguati a tutte le norme. Eravamo andati a farci fare il preventivo per il plexiglass ma poi, visti i prezzi di quel periodo saliti alle stelle per quella soluzione e visto che potevamo fare in maniera diversa, ci siamo adeguati nel pieno rispetto delle regole, eliminando tavoli e lavorando sul distanziamento. Non crediate sia stato facile: abbiamo dovuto adattarci a nuove procedure, ridurre drasticamente la clientela, aumentare i controlli, misurare la temperatura e compilare le schede dei clienti. Ma lo abbiamo fatto pur di poter lavorare. Poi a novembre ci hanno chiuso di nuovo”.

A rincarare la dose Margherita: “Sembra quasi che ci abbiano riaperto per pagare le tasse di agosto. Perché tasse e spese non si sono fermate, quelle abbiamo dovuto pagarle ugualmente, come le utenze. Peraltro a giugno, quando ci fu consentito di riaprire, e credo tra le pochissime attività in zona, sostituimmo i due ragazzi che si erano licenziati perché nel frattempo avevano trovato un altro lavoro assumendo altri due ragazzi per il locale”. Inutile dire che al momento sono in cassa integrazione anche loro, e che al momento, per nessuno dei dipendenti la partita con la Cassa Integrazione si è chiusa: sono in arretrato e due dei ragazzi attendono ancora che si chiuda la questione legata al primo lockdown. Perché poi il problema economico non è solo per gli imprenditori, ma anche e a maggior ragione per i dipendenti e per l’indotto.

Anche la questione ‘colori’ non li ha di certo agevolati. Un’attività come quella della ristorazione non può essere improvvisata, e non può essere aperta o chiusa con rapidità. “Noi cerchiamo e da sempre di mantenere un livello qualitativo elevato. Non ci si può dire due giorni prima che si riapre e poi dopo magari si richiude. Gli approvvigionamenti vanno fatti, e se si richiude poi tutto quello che ti avanza va in deperimento e va buttato. Tanto per fare un esempio: se attacchi un fusto di birra, che costa parecchio, non possiamo poi chiudere e tenerlo lì in attesa di riaprire. Dopo un certo periodo il contenuto va buttato via”. Una gestione convulsa, quella dello stato, che ancor di più ha depresso speranze ed ambizioni. “Ci avevano promesso che avremmo riaperto almeno per le feste e so di nostri colleghi che avevano già iniziato l’approvvigionamento per quei giorni che per noi sono importanti. Chi lo ha fatto ha dovuto buttare via tutto”.

C’è una profonda dignità ed una grandissima voglia di ricominciare per Mattia e Margherita. “Sai – ci dice Margherita – qual’è la cosa più pesante? E’ il non poter avere una prospettiva. Ne individuale, ne territoriale. Ci siamo sentiti molto, in questi tempi, con altri che fanno il nostro stesso mestiere e siamo davvero solidali gli uni con gli altri perché siamo sulla stessa barca. Se il lockdown fosse realmente per tutti magari ti pesa ma ti rendi conto che non puoi farci niente. Però l’impressione è che ci siano categorie come la nostra a cui si chiedono grossi sacrifici ed altre verso le quali non c’è la stessa rigidità. Io spero che gli amici che gestiscono i bar possano riaprire completamente come noi della ristorazione, ma a ben vedere, siamo più sicuri ancora dei bar. Perché al tavolo di un ristorante ti siedi con persone che conosci bene, soprattutto familiari o colleghi di lavoro. Al bar consumi magari un caffé a fianco di sconosciuti”. Margherita ci dice subito che la sua non è una polemica contro i bar: “Ad ognuno deve essere consentito, nel rispetto delle regole, di fare il proprio mestiere e tutti possiamo farlo seguendo tutte le regole”.

Mattia e Margherita non negano il momento di estremo disagio: “Presto – spiega Mattia – saremo costretti a ricorrere alle banche, ed è questo che ci preoccupa ancora di più perché noi sappiamo che appena riapriremo quelle porte la gente ricomincerà ad entrare e noi ricominceremo a lavorare. Noi chiediamo di poterlo fare, seguendo tutte le regole che ci sono state date, ma lavorando. Chiediamo questo: di poter lavorare, e non ci preoccupano i controlli per il rispetto delle norme, anzi, se ci faranno riaprire spererei pure che fossero ancora più continui. Non possiamo vivere di asporto, né pensare di lavorare solo a mezzogiorno”.

Non perdono la voglia di sognare Mattia e Margherita anche se certo la strada dei sogni si è fatta un po’ più difficoltosa. Chiedono ad uno stato impegnato nella gestione sanitaria del Covid che si cominci a porre mano anche alla questione economica e sociale. E, con estrema dignità, non chiedono neppure assistenza. Chiedono solo di poter tornare a vivere del proprio lavoro, e a tornare a far vivere del loro lavoro pure i loro dipendenti.

I tavoli sono vuoti, ma dietro ai vetri che danno sulla strada la vita va avanti, come quelle macchine che continuano a passare. E’ ora di trovare una strada anche dentro. E di ricominciare un viaggio, fatto di dignità e lavoro, fatto di famiglie, di pizze, di sorrisi. Mattia e Margherita sorridono, anche se forse con un po’ più di stanchezza nell’anima. Hanno diritto, come tutti, di tornare a volgere lo sguardo e con fiducia, verso il futuro. Hanno tutto il diritto di tornare – e presto – al proprio lavoro.

Nazzareno Condina

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