Cronaca

Pietro Finardi, il Covid, Mario e i 129 km in bicicletta, due mesi dopo

"Dovrò fare controlli - conclude - ma il peggio è passato". E Pietro è tornato sulla sua bicicletta. Determinato a riprendersi totalmente la sua vita. Non dimenticherà quei giorni, sorrisi e volti, parole ed attimi

MARTIGNANA DI PO – 129 chilometri in bicicletta. A un ritmo blando, certo, ma chi lo avrebbe detto dopo l’ossigeno, il fiato cortissimo, la febbre e il virus contratto alla fine dell’anno scorso. Pietro Finardi può dire di aver passato il Covid senza particolari strascichi. Certo il ritmo non è stato quello di Moser, ma non importa poi più di tanto.

L’importante è essere tornato sulla strada, ad una delle sue passioni, il pedale. Pietro Finardi, sposato (la moglie è infermiera a Oglio Po) con due figli e Mario, terzo figlio acquisito (uno splendido esemplare di Komondor che lo segue come un’ombra), aveva scoperto la positività il 31 dicembre scorso. “Avevo fatto il tampone, anche se non avevo nessun sintomo – ci racconta – e ricordo i primi giorni che giravo per casa, avanti e indietro dal corridoio piuttosto arrabbiato per non poter uscire”.

Quello stare bene comunque era stata un’illusione. “Il 4 gennaio mi è venuta la febbre a 39, ma anche lì non stavo male. Ho cominciato a prendere la tachipirina, la febbre scendeva ma proprio quando si abbassava cominciavo a tremare forte. Sentivo freddo. Sono arrivato così al 7 gennaio e nonostante due tachipirine, la febbre salita non scendeva più. Mia moglie ha chiamato il 118 ed hanno deciso di ricoverarmi”.

Pietro Finardi viene portato in Pronto Soccorso e da lì ricoverato in Medicina Covid a Oglio Po. Una stanza a 4 letti “Dalla quale non potevo uscire. Ricordo il primo giorno, mi hanno fatto una flebo ed ho sudato pure l’anima, mi hanno dovuto cambiare completamente due volte”. Pietro inizia subito la terapia, ed inizia ad avere quella sensazione di non avere fiato.

“Davvero una brutta sensazione. Avevo la maschera per l’ossigeno che tenevo 24 ore su 24 e quando riuscivo ad andare in bagno ricordo che non vedevo l’ora di rimettere la maschera perché non avevo fiato. Ansimavo, non riuscivo a respirare”. Intanto in casa è positiva tutta la famiglia. “L’unico ad essere negativo era Mario – scherza Pietro – ed è quello che ne ha sofferto di più. Per noi Mario è parte della famiglia, non è il cane, è Mario. Io lo porto fuori tutte le mattine, stiamo fuori per più di un’ora. Da un giorno all’altro si è ritrovato in casa, senza poter uscire. Ha cominciato a deprimersi, si è leccato le zampe mangiandosi i peli, una delle zampe è arrivato alla carne viva. Noi cercavamo di non afrlo sentire solo, ma poi io sono entrato in ospedale e lui comunque era costretto a stare in casa. I miei familiari gli facevano sentire la mia voce dal telefonino, ma non era la stessa cosa”.

In ospedale Pietro non si rende conto di nulla nelle altre stanze. “Non potevamo uscire dalla camera, non sapevamo quello che succedeva fuori. Sono stato in ospedale 11 giorni, 9 con la maschera d’ossigeno e gli ultimi due con gli ‘occhialini’ (le cannule dell’ossigeno al naso, ndr). Quando poi ho cominciato a respirare meglio, hanno deciso di mandarmi a casa”.

Dall’ospedale Pietro è uscito il 18 gennaio. Non sono stati giorni semplici. “Avevo la maschera d’ossigeno ed ero monitorato 24 ore su 24. Devo dire però di aver trovato persone che mi sono state vicine, per quello che potevano, e li devo ringraziare tutti. Dal personale delle pulizie alle oss ai medici. La sensazione è sempre stata quella di una estrema vicinanza. Mi hanno curato e mi sono stati vicino. Dall’infermiera che mi ha spiegato a come respirare ai medici che mi rendevano sempre partecipe di tutto. Alcuni nomi non li ricordo più. C’era un giovane dottore in quei giorni, andato poi a Grosseto. Le Oss le ho viste al lavoro. A fianco a me c’era un uomo di Rivarolo che non poteva muoversi. Vedevo con quanta cura venivano a cambiarlo, con quanta delicatezza lo hanno sempre trattato”.

In tanti, purtroppo non ce l’hanno fatta. Ha conosciuto febbre e fiato corto, ha vissuto l’isolamento Pietro. Ma se è rimasto ‘su’, se ha potuto uscirne è per quella umanità che ha avuto modo di apprezzare all’interno della struttura. “Tutti sono stati estremamente disponibili e se ho deciso di chiamarti per raccontare la mia storia è soprattutto per ringraziare tutti loro. Dalla donna delle pulizie alle infermiere e agli infermieri, da Lorenzo Marasi e Nicola Vicini che nella loro pausa venivano a scambiare due chiacchiere e a scherzare per tenermi su ai medici che mi hanno seguito al personale dell’impresa di pulizie che scherzava con me, da chi mi ha insegnato a respirare di nuovo ai medici”.

Mario, il quinto membro della famiglia Finardi

E Mario? Ti ha fatto le feste quando sei tornato a casa? “Direi di no – ride Pietro – anzi, quando sono arrivato è venuto ad annusarmi quasi non credesse che fossi io. Poi non mi ha più lasciato. Adesso è la mia ombra, dove mi muovo in casa mi viene dietro. So che mi puoi capire, Mario è Mario, non il cane di casa è un membro della mia famiglia”. Non lo lascia più Mario, lo ha già perso una volta, non vuole perderlo ancora.

“Dovrò fare controlli – conclude – ma il peggio è passato”. E Pietro è tornato sulla sua bicicletta. Determinato a riprendersi totalmente la sua vita. Non dimenticherà quei giorni, sorrisi e volti, parole ed attimi. Non dimenticherà la mancanza di respiro, la febbre e i brividi ma neppure tutta l’umanità che lo ha circondato e preso con se per accompagnarlo sino alla fine del tunnel.

Nazzareno Condina

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