Cultura

Atlantidi del Po: i resti di Cella
e i borghi perduti del Casalasco

Perleremo di quei villaggi che l’azione del Grande fiume si è portata via nel corso dei secoli e non sono pochi. I loro nomi sono Barcello, Casale dè Bellotti, Villa dè Ravanesi, Scurdo, Gurgo e Cella

I resti di Cella, nelle foto di Affanni e Conti

Il Grande fiume è, da sempre, protagonista, in ogni campo, delle vicende dei territori che attraversa. E’ fonte di vita, elemento di sviluppo, luogo di pace e protagonista della storia. Storia di territori che, proprio per azione del Po, nel corso dei secoli hanno subito profondi e radicali cambiamenti, compresa la scomparsa di interi paesi. E’ stato così ovunque e, in particolare, lo è stato nel Lodigiano, nel Piacentino, nel Parmense e nel Cremonese.

Nei mesi scorsi, grazie anche alle sorprese riservate dalla magra (a proposito, giusto ricordare che il Po, al di là dei suoi “saliscendi”, è ormai in magra da un anno, ed anche questo è un fatto che merita di essere scritto nella storia e lasciato ai posteri), lungo gli spiaggioni di entrambe le rive sono spesso emersi i poveri resti di remoti edifici, da secoli distrutti dal maggiore dei corsi d’acqua italiani. Le abbiamo chiamate le “Atlantidi del Po”, dandone risalto a più riprese. Perché è giusto, anzi doveroso, che la storia sia fatta conoscere, studiata e divulgata. Non va dimenticata e, soprattutto, è dal passato che si costruiscono il presente ed il futuro.

Oggi si resta nel “cuore” del Casalasco, parlando di quei villaggi che l’azione del Grande fiume si è portata via nel corso dei secoli e non sono pochi. I loro nomi sono Barcello, Casale dè Bellotti, Villa dè Ravanesi, Scurdo, Gurgo e Cella. Di Cella si dirà a parte; degli altri cinque si possono reperire importanti informazioni grazie alle preziose memorie lasciate dall’Abate Giovanni Romani, con particolare riferimento ai suoi volumi “Storia di Casalmaggiore dell’Abate Giovanni Romani (1828), “Storia di Casalmaggiore – Memorie storico-politiche di Casalmaggiore (1829)” e “Memorie storico-ecclesiastiche di Casalmaggiore” (1829).

Le località citate sorgevano tutte nei dintorni di Fossacaprara (località che, come scrive il Romano, esisteva sicuramente nel 1119) che, anticamente, cime noto, era una delle principali ville del Distretto Casalasco. E’ noto che, nel corso dei secoli, Fossacaprara ha fatto i conti, e non poco, con le pesanti erosioni causate dal Grande fiume che, tra le altre cose, si è portato via una chiesa (sicuramente esistente nel ’600 e all’epoca definita come Chiesa Rotta) ed un castello con fortezza che sorgeva nell’area compresa tra Vocomoscano e la stessa Fossacaprara. E’ anche lecito supporre che l’Isola di Fossacaprara, nota anche come Isolone, teatro per altro della celebre battaglia fluviale di Casalmaggiore combattuta il 15 e 16 luglio 1448 tra le flotte della Repubblica Ambrosiana e quelle della Repubblica di Venezia, possa celare i resti di quei piccoli borghi ormai scomparsi e rimasti fissati nelle sole memorie storiche.

Delle località citate si fa riferimento, in particolare, in una bolla di papa Eugenio III del 10 giugno 1152 riguardante una controversia insorta tra Rachilda, abbadessa del Monastero di Santa Giulia di Brescia, ed Oberto, vescovo di Cremona, sul distretto giurisdizionale della chiesa di Cicognara.

“In essa bolla, riportata dal chiarissimo abate Muratori, e che riferiremo noi pure per esteso in altro luogo più acconcio (a) – scrive l’abate Giovanni Romani nella sua “Storia di Casalmaggiore, Memorie-storico-politiche di Casalmaggiore” del 1829 – vien primieramente indicata una villa, come appartenente all’ agro casalasco sotto il nome di Barcello interposta tra le ville di Fossacaprara e di Cicognara, ma fuori della parrocchia di quest’ ultima”. Ancora il Romani, di cui si riporta un ampio stralcio, scrive: “Secondariamente in detta bolla vengono menzionate quattro ville sotto i nomi di Casale, villa de Ravanensi, Gurgo e villa de Scurdi, i cui abitanti vengono dal Pontefice obbligati pe’ loro bisogni spirituali a dover ricorrere alla chiesa di Cicognara, perchè forse in quel tempo non erano esse ville peranco fornite di chiese parrocchiali. L’aver promossa sopra di ciò questione il vescovo di Cremona fa conoscere che dette ville non appartenevano in origine, nè in quel tempo alla giurisdizione di Cicognara, ma che i loro abitanti vi furono sottomessi per la sola addotta ragione, perchè anticamente erano accostumati di concorrere, forse loro maggior comodo, all’ anzidetta chiesa: «ut videlicet homines de quattuor villis, scilicet Casali, Villa Ravennensium, Gurgo, et Scurdolo, qui antiquitus consueverunt venire ad Ecclesiam de Cicognaria, sicut ex prolatione testium utriusque partis percepimus, de cætero veniant, et spiritua lia accipiant».

Nessuna delle suddette ville di fatto trovasi in oggi con tal nome compresa nel territorio di Cicognara; e fuori di Casale, che per analogia potrebbe essere identico con Casale dei Bellotti, di cui fa cenno un documento dell’ anno 1397, e del quale non abbiamo un’analogia con la villa di Casale de’ Zani, volgarmente detto Casalzagno, quartiere del territorio di Cogozzo, che come compreso nella giurisdizione di Cicognara di quel tempo, non poteva essere oggetto di questione tra le suddette parti contendenti. Un tal Casale pertanto non poteva essere che il contermine, poscia chiamato dei Bellotti, appartenente alla nostra giurisdizione.

Le altre tre ville o non esistono più, od hanno cangiata l’antica loro denominazione, ne’ limitrofi territorj di Cicognara. Che se si potesse provare che il Casale, di cui parla la detta bolla, era lo stesso dell’attuale Casale dei Bellotti come sembra probabile, restarebbe appieno convalidata la nostra opinione, che al detto Casale fu posteriormente aggiunto il soprannome dei Bellotti da qualche ragguardevole famiglia, che per lungo tempo vi avesse posseduto qualche latifondo.

Dalle indagini da noi fatte sopra un instrumento dei 12 febbrajo 1397, col quale le monache di s. Giulia di Brescia permutarono con Bartolino de’ Cavalcabuoi, figlio del capitano Marcilio marchese di Viadana, tutti i beni, che le medesime godevano in Cicognara, ascendenti a quindici e più possessioni, dell’ egregio perticato di biolche trecento settanta, oltre le molte non misurate alluvioni del vicino fiume Po, sebbene nella descrizione di tutti que’ predj vengano indicati quasi tutti i confini dei limitrofi territorj del viadanese e del casalasco, non s’ incontra nella denominazione di essi confini la minima analogia coi nomi delle sopraccennate ville di Gurgo, Barcello, Scurdo e de Ravanesi. Abbiamo soltanto veduto più volte menzionati Casale de’ Bellotti come appartenente alla curia di Fossacaprara, e Casale de’ Zani, che, come si disse, era dipendente dal territorio di Cogozzo. Avendo noi pure percorsi non pochi altri antichi documenti riguardanti i territorj delle anzidette due ville di Cicognara e di Cogozzo, non ci venne fatto d’ incontrare la minima indicazione delle tre ville de Ravanesi, di Gurgo e di Scurdo; il che negativamente verrebbe a provare che queste non appartenevano al detto monastero di Brescia; e che perciò spettar potevano al contermine territorio casalasco. Che se neppure in questo non si scorge al presente la minima traccia della vetust’esistenza loro, si può con qualche fondamento supporre essere state le medesime distrutte dal vicino fiume, sapendosi pur troppo quanti guasti ne’ moderni e negli antichi tempi abbia sofferti la spiaggia casalasca”.

Dalle memorie, per altro preziosissime, dell’abate Romani, alla fine emerge che gli abitanti di Scurdo, Gurgo, Casale dè Bellotti e Villa dè Ravanesi, ad eccezione di alcuni soggetti, furono obbligati a concorrere alla chiesa di Cicognara. Barcello venne invece ritenuta dipendente dalla chiesa parrocchiale di Fossacaprara, permettendo tuttavia ad alcune famiglie ed individui della stessa Barcello di essere seppelliti nella parrocchiale di Cicognara, “obbligandoli in tutti gli altri esercizi divini di ricorrere alla chiesa di Fossacaprara” come ricorda ancora il Romani.

Detto quindi di Barcello, Scurdo, Gurgo, Casale dè Bellotti e Villa dè Ravanesi, un ampio “capitolo” lo merita il borgo di Cella, a sua volta, divorato dal Po, di cui si è per altro parlato, su oglioponews, nei mesi scorsi. Di Cella sono emersi innanzitutto i pochi e poveri resti, la scorsa estate, grazie proprio alla magra del Po. Due esperti e studiosi di storia locale, Paolo Affanni e Cesare Conti, entrambi colornesi, proprio la scorsa estate, si sono direttamente recati sull’isolotto su cui si trovano i resti dell’antico paese. E’ stata, quella, una “tappa” fondamentale delle ricerche e degli studi che hanno quindi compiuto “La più antica testimonianza dell’esistenza della frazione di Cella risale all’epoca tardo medioevale – fanno sapere loro stessi – negli anni tra il 1185 e il 1215 si svolse un processo atto a stabilire la pertinenza della chiesa di S. Clemente di Cella alla pieve di S. Stefano di Casalmaggiore. Colorno e Casalmaggiore provenivano da quattordici anni di forti contrasti e da una pace siglata tra il 1183 e il 1188. Era facile quindi intuire la necessità di questo processo che alla fine volse a favore dei cremonesi. Il contendersi di Cella nasceva sicuramente dalle forti modificazioni del territorio dovute al lento e continuo spostamento del corso del fiume Po e dalla sua primitiva collocazione sulla sponda cremonese.

Il territorio di Cella, nonché il suo nome, erano legati profondamente all’influenza e al preponderante dominio dei monaci Benedettini di San Giovanni Evangelista che avevano fondato e costruito la loro “Grancia” a pochissima distanza dalla frazione. A Sanguigna, a Sacca e a Cella erano concentrati, infatti, gli sterminati possedimenti terrieri del monastero. Furono gli stessi monaci a bonificare le dure terre vicine al Po e a costruire i primi deboli argini di contenimento delle sue acque.

Affanni e Conti rimarcano quindi che: “Il nome di Cella e la sua sommaria posizione è indicata su carte cinquecentesche e seicentesche, soprattutto del famoso cartografo a servizio di Barbara Sanseverino e dei duchi Farnese, Smeraldo Smeraldi, che disegnò in più mappe la frazione indicandola con alcune case e una chiesa.

Le frequenti piene del Po, unite alla continua erosione delle sponde dovuta alla non consona costruzione degli argini, provocavano continui mutamenti alla geografia del territorio posto tra il parmense e il cremonese. Inizialmente il paesino di Cella che si trovava, quindi, ad essere unito al territorio casalasco con il passare del tempo e i continui cambiamenti del corso del fiume finì per ritrovarsi a far parte delle terre del marchesato di Colorno. Alcuni documenti riportano il passaggio nel 1601 della piccola chiesa di Cella, già ricostruita probabilmente negli anni per i problemi legati al continuo spostamento delle acque del fiume, e dedicata a San Pietro Apostolo, alla diocesi di Borgo San Donnino l’odierna Fidenza. Tale chiesa compresa nel vicariato foraneo di Pieveottoville, divenne una rettoria, quindi dipendente da un’altra parrocchia.

L’elenco dei sacerdoti che operarono a Cella tra il 1600 e il 1767 è riportato sull’Enciclopedia Diocesana Fidentina di Dario Soresina conservata nell’Archivio della Diocesi di Fidenza. Nel diario del canonico della Collegiata di Santa Margherita di Colorno Costantino Canivetti è ripetuto spesso il nome di Cella, la frazione viene anche nominata relativamente ad un’alluvione del Po del 10 aprile 1627 che ne sommerse le case. Anche nell’archivio parrocchiale di Colorno – aggiungono – sono presenti numerosi documenti che riportano il nome di Cella. Viene indicato tra tali documenti anche l’ultimo battesimo effettuato in un’abitazione privata della frazione nel 1764. A metà del settecento il problema dell’erosione cominciò ad essere preoccupante per gli abitanti della piccola frazione che contava allora una quindicina di case soprattutto concentrate nella zona adiacente alla chiesa.

Le acque del Po continuavano ad avanzare verso il colornese; si erano infatti creati due rami distinti del fiume destinati ad allargarsi e ad unirsi in località Giarra di Coltaro”. I due studiosi ricordano e sottolineano con assoluta chiarezza che “Sono numerose le mappe conservate presso l’Archivio di Stato di Parma che raccontano l’evoluzione delle sorti di Cella negli ultimi cinquant’anni del ‘700. Proprio queste mappe riportate in pertiche parmigiane (antica misura di lunghezza che corrisponde a 3,27 m) ci indicano precisamente dove era ubicato l’abitato del paesino e non lasciano dubbi ad interpretazioni o supposizioni di altro tipo.

La Villa di Cella di Colorno si trovava nella parte di territorio colornese compresa tra Sacca e Coltaro, a Est rispetto al canale Va e Vieni, a Nord-Est rispetto alla frazione di Sanguigna e a Nord della Grancia dei Benedettini di San Giovanni Evangelista di Sanguigna da cui distava circa 900 metri. Inoltre, per avere un’ulteriore punto di riferimento, la chiesa di S. Pietro Apostolo di Cella distava 1900 metri dall’attuale chiesa di S. Giorgio di Sacca. Come riporta il Gozzi, a servizio del duca Ferdinando di Borbone, in una mappa, a partire dal 1760 la frazione di Cella cominciò ad essere sommersa dalle acque, inizialmente ad essere interessata fu la zona dell’abitato più a Nord che comprendeva anche la chiesa principale. L’edificio ecclesiastico fu definitivamente sommerso e crollò nel 1767 insieme a gran parte delle case.

Le carte testimoniano un continuo rincorrersi e affrettarsi nella progettazione e nella costruzione di nuovi argini per cercare di contenere questa incessante e inesorabile avanzata del Po. Ma contro la natura nulla ebbe effetto; rimase indenne ancora per alcuni anni una zona più a Sud che comprendeva una piccola porzione di territorio sulle mappe denominata La Pantera nella quale esistevano allora due sole case, e un altro terreno vicino al Canale Va e Vieni comprendente un piccolo Oratorio e una casa. Tale situazione è riportata oltre che sulle mappe dell’Archivio di Stato anche su una mappa del 1772 disegnata dal cartografo della Congregazione dei Cavamenti Giuseppe Abbati (conservata in collezione privata). Fu intorno al 1778-1779 che le acque del Po sommersero definitivamente quel poco che restava delle antiche case di Cella e anche quell’ Oratorio che aveva probabilmente supplito in quegli ultimi anni alla mancanza della chiesa di S. Pietro Apostolo già perduta in precedenza.

Dopo il 1779 – proseguono – il Po cominciò a ritirarsi e ad invertire la rotta rispostandosi verso il territorio cremonese. Si crearono così larghi isolotti sabbiosi e lanche paludose. Anche nella zona in cui fino a pochi anni prima si trovava Cella iniziò un lento ritiro delle acque. Già nel 1785 la zona occupata dalla frazione si era largamente asciugata e si era quasi completamente trasformata in area golenale così com’è ancora in parte oggi. La Villa di Cella scomparve alla fine del Settecento dalla carte geografiche, scomparve alla vista di chi frequentava i territori colornesi lungo il Po e scomparve definitivamente dalla memoria della gente. Nel 1836 il vescovo Luigi Sanvitale fece alienare l’ultimo appezzamento di terra rimasto di proprietà della chiesa di Cella, che venne acquistato da un certo Giuseppe Ferrari di Colorno. Il ricavato fu destinato alla sagrestia della chiesa di S. Pietro Apostolo di Fidenza. Recentemente, con la crisi idrica e il conseguente abbassamento del livello delle acque del Po, è affiorato un isolotto, vicino allo spiaggione dell’Isola Maria Luigia e a poche centinaia di metri di distanza dalla Motonautica di Sacca. Su tale isolotto sabbioso, che è rimasto completamente visibile durante tutto il periodo estivo, erano osservabili i resti di una costruzione appartenente per ubicazione, ipotesi ampiamente avvallata dalle mappe precedentemente descritte, alla zona detta La Pantera porzione dell’abitato della frazione di Cella. Sull’isolotto sono presenti mattoni di probabile fattura seicentesca/settecentesca insieme a frammenti di coppi e di pavimentazione in ciottoli e cotto. La stessa tipologia di resti era visibile anche sotto il pelo dell’acqua e si estende per qualche metro negli immediati dintorni dell’isolotto. Tale scoperta – concludono – era stata documentata ad agosto sulle pagine della Gazzetta di Parma facendo conoscere l’esistenza di quel piccolo paesino di fiume che quasi nessuno aveva mai sentito nemmeno nominare e destando grande curiosità”.

Eremita del Po, Paolo Panni

Si ringraziano per la disponibilità, per le fondamentali informazioni storiche e per le immagini fornite Paolo Affanni e Cesare Conti

Foto1: mappa su attuale ubicazione di Cella.
Particolare di una mappa databile nella prima metà del ‘700. In tale mappa l’abitato di Cella risulta ancora intatto ed è visibile la Chiesa principale. Sono visibili l’Oratorio che probabilmente divenne la chiesa principale dopo la scomparsa di quella di S. Pietro Apostolo e altre tre case. In basso a sinistra la Grancia Benedettina di Sanguigna e in alto a destra l’attuale chiesa di S.Giorgio di Sacca. Archivio di Stato Parma
Foto3: Particolare di una mappa databile intorno al 1770. Nella mappa è visibile ciò che rimane di Cella e della località La Pantera dopo la prima sommersione
Cella Oggi nelle immagini di Paolo Affanni e Cesare Conti
Cella Oggi nelle immagini di Paolo Affanni e Cesare Conti
Cella Oggi nelle immagini di Paolo Affanni e Cesare Conti

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