Cultura

Siccità. Storie di stagioni
secche in riva al fiume Po

Quale è dunque la previsione? Per la Pianura Padana, secondo Persico, dati alla mano, e senza girarci attorno si prospetta “un’estate sconvolgente al limite della desertificazione”

Foto: Paolo Panni

Ci risiamo. Puntuali come un orologio svizzero. Come accade ormai da diversi anni a questa parte (perché il caso straordinario dello scorso anno, per quanto eccezionale, non è che la punta dell’iceberg di una tendenza che andava avanti da anni), televisioni e giornali nazionali sono tornati, in questi giorni, a parlare della siccità e, come è ovvio che sia, il nostro Grande fiume è stato scelto come uno degli emblemi più chiari di questa situazione. Nulla di falso o di inventato, ci mancherebbe. Ma, purtroppo, verrebbe da dire, il copione di un film già visto e rivisto.

Perché, inutile negarlo, sono anni che, metro più metro meno, d’inverno il Po fa registrare magre notevoli e sono molti, troppi mesi che non assistiamo a una piena degna di questo nome. Ormai i servizi giornalistici che vengono trasmessi (o pubblicati) sono, bene o male, il “copia incolla”, va ribadito, di un film già visto. Perché le grandi magre invernali, le siccità, la scarsità di neve, le estati torride non sono più una novità.

Cosa si è fatto per ovviare a tutto questo? Se ne sono sentite tante. I soliti incravattati dal deretano piatto e pelato (benpensanti e moralisti, che rifuggo, leggano sempre politici), comodamente seduti sui loro scranni vellutati (romani e non) si sono superati in proposte più o meno fantasiose, più o meno realizzabili, più o meno intelligenti. Premesso che è anche singolare sentire parlare di fiume gente che il Po non sa nemmeno dove nasce né da dove passa (e dal fiume, tutto sommato, farebbero bene a stare alla larga, anziché arrivarci quando è ora di farsi vedere a blaterare in televisione) è un dato di fatto che conferenze, convegni, tavolate, e quant’altro sono sempre finite a “tarallucci e vino”, in lauti rinfreschi, in fiumi di parole: ma i fatti ad oggi stanno a zero. Cose, queste, che nel Belpaese non devono nemmeno più stupire; del resto non deve stupire l’elevato astensionismo (in costante aumento, i numeri parlano da soli) che si è registrato nelle ultime tornate elettorali. La gente è anche stanca di credere alle parole e di non vedere i fatti, come del resto accade su innumerevoli altri temi.

Ma, giusto per restare alla nostra siccità e al nostro fiume, c’è da sperare, innanzitutto, che prima o poi, a parlare di Po vengano chiamati coloro che il fiume lo vivono e ci vivono, lo conoscono più delle loro tasche e non lo lascerebbero mai. Come di cambiamenti climatici e di siccità è bene chiamare coloro che su questi temi hanno speso studi, energie ed esperienze e non personaggi che, per loro scelta, nella vita si sono dedicati ad altro.

Uno di quelli da ascoltare è senza dubbio Davide Persico, non solo perché è il sindaco di un paese del medio Po (San Daniele Po), non solo perché alle scienze della terra sta dedicando la vita, non solo perché insegna all’Università (e già queste motivazioni basterebbero ampiamente) ma, soprattutto, perché sul fiume è nato, sul fiume vive, sul fiume ci va tutti i santi giorni, è un innamorato del Po (e queste altre motivazioni sono ancora più importanti dei titoli che si è sudato).

Mettendo mano ai dati Aipo Persico, già nei giorni scorsi ha evidenziato il “Livello annuale del fiume Po dal 16 febbraio 2022 al 16 febbraio 2023. Un anno – ha rimarcato – senza eventi di piena con un picco di magra il 26 luglio a -7.45 metri e un picco di piena a -4.33 metri il 10 gennaio. Per un anno intero, il livello del fiume non si è mai lontanamente avvicinato allo 0 idrometrico”. Il professor Persico ha osservato anche che “Oggi, lo zero  termico è posizionato a  2516 metri di altitudine e questo significa che sotto i 2500 metri non c’è neve persistente o comunque in quantità irrisorie e inutili”.

Quale è dunque la previsione? Per la Pianura Padana, secondo Persico, dati alla mano, e senza girarci attorno si prospetta “un’estate sconvolgente al limite della desertificazione”. Parole chiare, che dovrebbero servire da monito, che non possono in nessun modo essere ignorate. Anche se il timore, contando poi che l’estate non è certo lontana, è che dovremo “scottarci”.

Altro aspetto da evidenziare riguarda il fatto che parecchie lanche, tanto nel Cremonese, nel Casalasco, nel Parmense e nel resto dei territori bagnati dal Po, sono del tutto asciutte, ridotte a una “steppa”. Altre sono prossime ad asciugarsi. Con danni incalcolabili per gli ecosistemi, la biodiversità e con una miriade di pesci che ormai sono già morti in questi mesi.

La siccità con cui di nuovo si devono fare i conti è dovuta ad un inverno particolarmente arido, povero di piogge, alla scarsità di neve sulle Alpi (specialmente quelle meridionali, che nutrono il Po con lo scioglimento del manto nevoso) e ad una tarda primavera con temperature anche di 4 °C più alte rispetto alla media stagionale. Il fiume ci è già passato nel 2007, nel 2012 e nel 2017, e altre due siccità eccezionali si sono verificate nel 2006 e nel 2003: la frequenza di questi eventi è secondo gli esperti una chiara conseguenze dei cambiamenti climatici. Che, appunto, non sono iniziati ieri e nemmeno l’altro ieri: giusto per ricordarlo a coloro che, alle tavolate e alle conferenze (forse solo per apparire su giornali e televisioni?) avrebbero dovuto far corrispondere i fatti.

Un recente rapporto del Wwf (non pinco pallino) ha evidenziato anche che “La desertificazione sta mangiando tratti sempre più lunghi e profondi del fiume e questo ha conseguenze gravissime sulle coltivazioni, sulla biodiversità e sul settore idroelettrico, anche nell’immediato”. Anche questo dovrebbe essere un campanello d’allarme capace di portare oltre le tavolate e le conferenze.

In attesa (forse vana) che, prima o poi, le cose possano cambiare e almeno la metà della metà dei fatti annunciati vada in porto, dal momento che a chi scrive queste righe piace la storia, giusto ricordare, limitandoci agli ultimi decenni, le ultime e più gravi siccità. A partire dal 1959, con due episodi, uno alla fine dell’inverno in Veneto, Salento e versante adriatico dell’Appennino settentrionale e l’altro durante la stagione estiva con assenza ininterrotta di pioggia per più di 100 giorni in Sardegna, alta Pianura Padana, bacino del fiume Adige, Piemonte e Liguria.

Del tutto storica la siccità, che colpì tutta l’Italia, nel 1962, tra l’estate e l’autunno, per più di 100 giorni. In particolare furono interessate la fascia costiera tirrenica, Sardegna. E soprattutto in Sicilia addirittura si arrivò fino a 200 giorni senza piogge. Nel 1976, nel primo semestre dell’anno specie in Piemonte, Lombardia, Alpi centrali. Ad esempio a Milano e Como con solo 200 millimetri in sei mesi, il valore più basso degli ultimi 200 anni.

Il Po il 20 luglio toccò la portata minima di 335 metri cubi al secondo (il minimo storico era di 275). Tra il 1980 e il 1981 ci furono 106 giorni a secco, dal 26 novembre al 13 marzo, in Lombardia, con non più di 20 millimetri di pioggia. Un inverno molto siccitoso per tutto il Nord-Ovest in generale (ma non per il resto d’Italia). Tra il 1988 ed il 1989 una siccità davvero intensa tra settembre e marzo, peraltro durante quello che sarebbe dovuto essere il periodo più piovoso dell’anno. Durata ed estensione come non avveniva da 250 anni. Praticamente totale assenza di neve con solo 2 o 3 deboli nevicate. Oltretutto il clima mite e i cieli sereni sciolsero quel poco che c’era, eccetto i ghiacciai perenni a quote oltre i 2500 metri. Come se non bastasse la siccità si ripetè anche nel 1989 e nel 1990 e da settembre a gennaio si ebbe appena il 30-50% delle piogge che si hanno normalmente sull’intera Penisola. Dunque ulteriore aggravio del deficit idrico che si protraeva dall’anno precedente, con tanto di razionamento dell’acqua potabile in molte città.

Nel novembre del 1994 ci fu l’alluvione che colpì anche Lombardia ed Emilia ma fu poi seguita da scarse o assenti precipitazioni sulla Pianura Padana fino alla fine di febbraio, con l’eccezione poco dopo metà gennaio di una debole perturbazione atlantica che anche grazie alle basse temperature fece nevicare a Milano e Torino, ma furono pochi centimetri. Nel 2000 ancora una volta la siccità colpì soprattutto il Nord e durò per i primi 70 giorni dell’anno. Su tutto l’arco alpino la neve non fece la sua comparsa con danni anche al turismo e poi, in autunno, ci fu una delle più grandi esondazioni del fiume di tutti i tempi.

Veniamo poi alle ultime, importanti siccità, più recenti, degli anni 2003, 2006, 2007, 2012, 2017, 2022 e, ormai, anche 2023.

Se ci sono poche, pochissime speranze che dall’alto degli scranni vellutati, romani e non, si individui e soprattutto si realizzi qualcosa di utile (e di sensato), non resta che affidarsi a Giove Pluvio o, più semplicemente, alla Divina Provvidenza. Del resto la storia stessa ci insegna che anche questa è stata necessaria. In numerose occasioni si sono tenute benedizioni e riti a favore della campagna e per chiedere la pioggia. E’ stato così anche lo scorso anno quando, giustamente, si sono scomodati parroci e vescovi.

A proposito di parroci, curiose e interessanti sono le memorie lasciate dall’arciprete don Emilio Balestra, parroco di Zibello dal 1889 al 1934. Nel 1904 don Balestra scriveva che “dopo tre mesi di insistente siccità, ridottasi la campagna nel massimo squallore e la melica ed erbe quasi disseccate, dopo tante preghiere e tridui, per iniziativa di alcuni parrocchiani che raccolsero in un sol giorno più di cinquanta lire, si decise di fare la processione con la statua di san Rocco tenuta in grande considerazione ne prati di Zibello. Nel giorno 2 luglio al mattino si cantò la Santa Messa e nel pomeriggio dopo i Vespri circa le ore sette incominciò la processione. Quantunque fosse stata una cosa decisa improvvisamente senza darne avviso al popolo delle parrocchie limitrofe, la voce si propagò in un baleno ed un popolo immenso e commosso accompagnava la statua taumaturga ripetendo in devozione le Litanie dei Santi ed altre penitenziali preghiere.

Era una cosa commovente vedere quei prati immensi diventare meta di preghiere e tempio di supplicazioni. Nel mezzo era eretto l’altare ed il pulpito da ricordare i bei anni di fede quando i Santi predicavano all’immense popolazioni nelle piazze ma purtroppo scorsero e più non si rinnoveranno. Giunta nel punto designato, si cantarono diverse strofe ad onore del Santo ed il parroco Arciprete tenne un infuocato discorso al popolo piangente ad dimostrando la necessità di tornare a Dio che ci chiama coi suoi flagelli.

Finito il sermone ed impartita la Benedizione alle Reliquie del Santo processionalmente in mezzo a molti lumi si fece ritorno alla chiesa dove si chiuse la funzione colla benedizione del Santissimo Sacramento. E’ da notarsi che a ricordanza di vecchi è già la quarta volta che si porta in processione San Rocco nei prati di Zibello. Dopo quarantanove anni che si era portato in processione il Simulacro (e questo avvenne nell’anno 1855 in causa del colera) nel giorno susseguente (3 luglio) si fece la processione col Santissimo Simulacro. V’era grande popolo, moltissimi lumi e devozione, ma il Signore vuole punire i nostri peccati specie la bestemmia, l’empietà e la profanazione delle feste. Lo scrivente ricorda don dolore ai suoi successori in questo giorno come al solito di quasi tutte le Domeniche si fece il ballo pubblico alla Fratina. Non è un ridersi di Dio? Auguro ai suoi successori più santi e zelanti, tempi migliori e più consolazioni nel loro Sacro Ministero. Qui non può a meno di lamentare la negligenza dei vecchi che hanno trascurato il Santuario di San Rocco d’Ardola e la Statua miracolosa. Se leggiamo le antiche memorie, era in grande venerazione per le grazie operate e ne fanno fede le acque prodigiose, i voti, gli argenti della Chiesa, i preziosi ornati della statua, la bella chiesa e le ricchezze che possedeva quell’Oratorio. Il credereste! Soltanto cinquantanni fa appartenevano a quella Chiesa diversi corpi di terra e più di quaranta vaccine che allora si davano a soccida, da essere la più ricca delle stesse parrocchiali limitrofe. Quando successe il M.r.d. Gardini a quella Rettoria non solo erano scomparse le terre e le vaccine, ma anche l’Oratorio non aveva un candeliere né un purificatoio per la Santa messa. No n prese il volo l’argento della statua perché attaccato. Grazie allo zelo del rettore moderno è ridotto a florido santo; ma la fama di Santuario se n’è andata per la negligenza di chi doveva per ufficio occuparsene, Voglia il glorioso San Rocco risuscitarla per la gloria di Dio e la salute delle anime”. Parole forti, molto chiare e nette, quelle di don Emilio Balestra (che, probabilmente, vedendo come stanno oggi le cose si sarà rivoltato innumerevoli volte nella tomba). Possa Lui dal Cielo intercedere, non solo per la fine della siccità, ma anche per un miglioramento dei comportamenti della gente e per una ripresa di quelle tradizioni, anche religiose, che meriterebbero di tornare a vivere, subito.

Eremita del Po, Paolo Panni

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