Cultura

Polesine (PR): Gaetano Mistura e la
lezione di storia del grande fiume

Questa volta Gaetano Mistura ci ha regalato un testo meraviglioso dedicato a Polesine e al suo tormentato rapporto con il Grande fiume. Rapporto che interessa e coinvolge ampiamente anche la sponda lombarda. Nel ringraziarlo per questo dono si pubblica, per esteso, il suo testo

Quando si parla di Gaetano Mistura, ex sindaco, per più legislature, del vecchio Comune di Zibello è necessario togliersi il cappello, come si suol dire, e stare in silenzio per ascoltare, o leggere, le sue lezioni (perché di lezioni si tratta) di storia dei nostri territori. Quella storia che lui ha sempre amato, studiato e custodito ma anche divulgato con scritti e pubblicazioni.

Una miniera vivente di storia delle aree emiliane del Po; quella storia che spesso e volentieri si intreccia con quella cremonese e casalasca. In più occasioni, a chi scrive queste righe e più in generale ai lettori di Oglioponews ha donato interventi magistrali, straordinariamente preziosi, per i quali possiamo solo dire grazie.

Chi scrive queste righe, ancora una volta, può solo scusarsi con Gaetano Mistura per i tanti, troppi ed eccessivi disturbi arrecati quando era sindaco. All’epoca, chi scrive queste righe, era piccolo e viveva nell’appartamento municipale di Zibello e, come divertimento, aveva quella quello di scorrazzare per uffici e corridoi col triciclo e la macchinina a pedali.

Restano un mistero i mal di testa, e di pancia, causati all’epoca a Gaetano Mistura, il quale da autentico signore quale è sempre stato ha portato una pazienza non indifferente.

C’è stato poi un tempo in cui si aveva soggezione di lui e, infine, invecchiando, sono arrivati invece i tempi in cui in lui, nonostante la differenza di età, si è scoperto un maestro, un punto di riferimento a cui attingere a piene mani ma soprattutto un amico, di quelli veri, di cui potersi fidare in qualsiasi momento, sapendo di trovare sempre una parola giusta, un consiglio, un sostegno.

Uno di quelli che, se mai si volesse ricandidare, ci sarebbe da dargli il voto e occhi chiusi, senza necessità di leggere il programma né tantomeno la posizione politica perché si sarebbe sempre, e comunque, in ottime mani.

Questa volta Gaetano Mistura ci ha regalato un testo meraviglioso dedicato a Polesine e al suo tormentato rapporto con il Grande fiume. Rapporto che interessa e coinvolge ampiamente anche la sponda lombarda. Nel ringraziarlo per questo dono si pubblica, per esteso, il suo testo.

Eremita del Po, Paolo Panni

Polesine e il suo tormentato rapporto con il Grande Fiume (di Gaetano Mistura)

Tanti anni fa, ormai, nel 1960, furono pubblicati su alcuni numeri della Gazzetta di Parma articoli aventi per argomento Polesine e il suo tormentato rapporto con il Grande fiume che qui, in diverse occasioni, ha imperversato, rendendo irriconoscibile la secolare morfologia sia del territorio, sia del tessuto urbano.
Autore di questi articoli era il prof. Vito Rastelli, docente di lettere e padre del mai adeguatamente rimpianto dott. Giancarlo, il celebre cardiochirurgo che con le sue tecniche innovative ha contribuito a salvare la vita di tanti bambini e padre altresì, il prof. Vito, della prof. Rosangela, scomparsa alcuni anni fa, docente di scuola media e giornalista raffinata, che sulle pagine della Gazzetta firmava articoli di costume e società riguardanti, in particolare, il mondo giovanile.

Rastelli nei suoi scritti, avvalendosi dello studio di documenti d’epoca, ripercorre l’evoluzione del territorio di Polesine, che fino a metà del 1700 occupava quello che oggi è l’alveo stesso del Po, territorio che si estendeva tra i “Ronchi Pallavicino”, di fronte a Santa Croce, in terra emiliana, fino a Le Brancere, in terra lombarda. Era un grosso borgo Polesine che contava un duemila abitanti e poteva rivaleggiare, per popolazione, con Busseto. All’epoca il fiume correva più nord rispetto ad oggi; se ne rinviene qua e là qualche traccia, segnata sulle mappe come “Po morto” e il suo vecchio fondale mappato come “fossadone”, ora interrato e coperto da vegetazione. Gravi e bizzarre furono nei secoli andati le deviazioni del corso del fiume anche a causa delle arginature, che quand’anche ci fossero, erano modeste per altezza e poco affidabili per solidità, dando così modo alla corrente di spaziare e irrompere in ogni dove, trascinando con sé tutto ciò che incontrava lungo il suo corso, comprese giare, sabbie, ma anche interi paesi, come nel caso di Polesine il cui toponimo può verosimilmente derivare dal latino “laesus a Pado”, ossia: leso, corroso dal Po. Il prof. Soliani nei suoi studi sul territorio (v. “Nelle Terre dei Pallavicino”) ne dà altre interpretazioni, in ogni caso certezze, come quasi sempre in questi casi, non ve ne sono, al sottoscritto quella riferita pare la più credibile.

Se è vero, come è vero che dopo una piena o a una serie di piene, il fiume può mutare il suo corso, non può stupire che un sedime già appartenuto ad una giurisdizione amministrativa, venga strappato e vada a depositarsi sulla sponda opposta, senza peraltro che ne venga necessariamente mutata l’appartenenza giurisdizionale.

Può anche accadere che in occasione di un evento eccezionale la violenza della corrente irrompa in una bassura e spezzi una terra che prima costituiva un unico sedimento.

Questo è verosimilmente accaduto a Polesine dove ancora oggi una porzione del suo territorio, su cui corre anche una strada comunale, si trova oltre il Po, in sponda cremonese. Per contro non lontano da Cremona vi è una località chiamata Bosco parmigiano, benché in territorio lombardo.

Rastelli racconta che del vecchio borgo di Polesine facevano parte edifici importanti dal punto di vista istituzionale e religioso, come l’antico convento dedicato a S. Rocco e la chiesa. Poi, avendo un porto molto importante dominato dai Pallavicino e trovandosi sul confine di stati diversi come la Lombardia e vari ducati, vi era la dogana che doveva presiedere al controllo delle merci e al pagamento di dazi doganali, il palazzo pretorio, le prigioni per reprimere e punire le attività di contrabbando e di brigantaggio che non saranno certamente mancate.

Fu a partire dalle grandi piene del 1386 e del 1394 che il Po nel volgere di poco più di quattro secoli finì per ingoiare l’intero borgo, più volte poi costruito e ricostruito, e con esso, per ben due volte a partire dal 1400, la chiesa parrocchiale (quella attuale è la terza). Poi l’autore riporta i suoi ricordi personali e racconta come da ragazzo alla vigilia della prima guerra mondiale si recava a vedere l’azione erosiva della corrente nei Ronchi Pallavicini, che, come si è detto erano prospicenti il paese di Santa Croce e anche nel Mulinello, “dove lo Stato aveva finalmente dato mano alle opere di difesa della sponda, nel quadro dei grandi progetti di incanalamento del fiume”.

Alcuni lavori di difesa dalle piene, particolarmente di arginatura, erano già stati attuati in epoca napoleonica, specialmente dopo che a Piacenza nel 1811 era stato istituito un Magistrato del Po avente il compito di sovraintendere ed indirizzare tali lavori. La gente ancora oggi continua a ritenere «argini napoleonici» gli argini maestri, ma in realtà questi, sia pure in dimensioni ridotte esistevano già nel 1700, mentre in epoca napoleonica furono elevati e portati ad un maggior livello di sicurezza con i lavori eseguiti nel 1811.

Dopo l’era napoleonica e dal 1815 la cura degli argini e dell’alveo del fiume contro la corrosione vennero affidati a consorzi di cui facevano parte i proprietari dei terreni interessati con oneri di mantenimento a loro carico, ma generalmente assistiti da contributi erariali. Oggi queste funzioni sono prerogativa delle regioni e, in Emilia Romagna, vi si provvede attraverso l’AIPO-Agenzia Interregionale per il fiume Po. Da noi tra il 2010 e il 2011, nel tratto foce Ongina – foce Enza, la struttura arginale venne ulteriormente rinforzata e riallineata nella sommità, colmando gli eventuali avvallamenti che si erano andati formando nel tempo. Altri importanti lavori furono eseguiti dopo l’alluvione del 1951. In quell’occasione, oltre a rinforzare la scarpata dove ritenuto necessario, vennero ricostruite tutte le chiaviche.

I lavori del 1811 erano i primi e più importanti per il consolidamento delle sponde e la tutela dei territori posti fuori dal fiume, ma la furia corrosiva proseguirà fino ai primi decenni del nuovo secolo (1900), spostando con capricciosa bizzarria ora di qua, ora di là il corso principale della massa d’acqua.

“Nei Ronchi Pallavicino nei primi anni del ‘900 furono ancorate le ultime due molinasse – dice Rastelli – le cui ruote a pale erano mosse dall’impetuoso “filone” della corrente che da gran tempo batteva la riva”.

Di lì a pochi anni però comincerà a far la sua comparsa la macchina a vapore, poi appena prima della guerra ‘15-‘18 il motore a scoppio, ricordiamo i rudimentali mezzi motorizzati che si vedono nei filmati d’epoca ed ancora, in rapida successione, l’energia elettrica e i mulini a cilindri. Per i mulini ad acqua non c’era più storia. Quelli che furono i primi, arcaici mezzi meccanici capaci di sostituire il lavoro manuale e il lavoro animale, avevano ormai esaurito la loro funzione; d’ora in poi diverranno, come ultima destinazione, legna da ardere. L’agonia dell’antico borgo di Polesine, tuttavia, era proseguita per tutta la metà del 1800. L’azione erosiva fu tanto implacabile, che si dovette pensare ad una traslazione dell’intera borgata che venne ricostruita più a sud in zona più elevata e protetta da un argine che, benché avesse dato non poche preoccupazioni durante l’alluvione del 1951 e benché i nostri vecchi lo ritenessero poco sicuro: “l’e un arsan ca bala”, dicevano, dopo essere stato sottoposto a lavori di rinforzo, nel tempo, si è manifestato in grado di svolgere le funzioni che gli sono proprie.

Tra la fine del 1300 e i primi anni del 1400 il marchese Rolando Pallavicino dotò il paese di una rocca con funzioni sia militari che amministrative e residenziali. La sua collocazione a ridosso del “Porto de Polesene” e l’imponente torrione di cui venne dotata, rivelavano già di per sé l’importanza strategica che le veniva attribuita, a difesa del porto sul fiume, una via di comunicazione sulla quale si svolgevano attività (mulini, estrazioni di litoidi, boschi, oltre a transiti soggetti a gabelle e diritti di porto), tenzoni, fra Stati limitrofi e contrapposti, in continua lite non solo per il controllo delle acque, ma anche delle rigogliose pianure che stavano alle loro spalle, dominate da città come Fidenza e Cremona e più oltre Milano e Venezia. (Da: C. Soliani G.A. Allegri C. Capelli – “Nelle terre dei Pallavicino” – Il feudo di Polesine e i suoi Signori tra XV e XVIII secolo.

Il 1528 e il 1547 sono date che segnano l’inizio di un profondo mutamento del corso del Po che gradualmente avrebbe portato alla scomparsa di una notevole parte del paese e il principio della rovina della rocca. Essa, per le sue dimensioni e la sua imponenza non passò inosservata, non tanto negli abitanti locali, ma anche fra quanti avevano modo di transitare per questo nodo commerciale (porto di Polesine). La rovina avvenne a partire dal 1547 e fu accompagnata da diverse testimonianze, una in particolare riteniamo debba essere riferita: “Mi ricordo bene” racconta Geminiano da S.Agata “quando il Po tirò giù parte della rocca, di notte appena (io ed altri) avemmo il tempo di uscire prima che ci cascasse addosso. Venti anni dopo (il fiume) tolse il resto della rocca. Crollò la parte di mezzo, “alla infine (il Po) menò via il tutto con la piazza, chiesa et altre terre et case che erano lì et mangiò l’argine di qua dalla rocca sin tanto che si accostò ai campi et ne tirò giù parte et fece un gran danno”.

Per il momento chiudiamo qui, ma altre rovine accaddero nei secoli successivi, almeno fino alla seconda metà dell’800. Certo, stiamo parlando di eventi che hanno avuto corso nell’arco di quasi un millennio. Ma per il plurimilionario lento scorrere del fiume, questi accadimenti sono come un refolo di vento che ci passa sulla testa scompigliandoci un po’ i capelli.

Altro racconteremo più avanti. Per ora ci corre l’obbligo di ringraziare, oltre il prof. Rastelli, il prof. Soliani e i suoi coautori dalle cui ricerche condensate nel compendio “Nelle terre dei Pallavicino” abbiamo attinto a piene mani. A loro un grazie riconoscente e, a quanti hanno avuto modo di leggere questa storia, le scuse più sentite se in qualche modo abbiamo riferito cose magari risapute, attinte da fonti a loro già note. Al Prof. Soliani, infine, ancora un doveroso grazie e un reverente saluto. (G. Mistura)

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