Cronaca

Domenica in Duomo la messa per gli amici defunti. Il racconto di Ennio, da cui tutto prese vita

Gli organizzatori ringraziano tutti coloro che hanno collaborato e in special modo coloro che vorranno partecipare a questa Messa in ricordo e che ha in sé l’ambizione di risvegliare quei sentimenti e quell’unione che legarono quei bambini e quei ragazzi di allora

CASALMAGGIORE – Il 15 Dicembre in Duomo alle 10.30, si terrà una Messa per ricordare gli amici che ci hanno lasciato troppo presto

Si parla tanto dei social network, della loro utilità ma soprattutto dei loro difetti, di quanto hanno cambiato la nostra vita e il nostro modo di relazionarci con gli altri, dell’uso errato che molti di noi ne fanno e della dipendenza inconscia che creano. Ma non tutti i mali vengono per nuocere e galeotto, in questa bella storia, fu proprio Facebook.

In primavera inoltrata Ennio Barbieri, nato a Casalmaggiore e ora residente a Parma, pubblica un post molto intenso e toccante in ricordo del fratello Massimo (lo trovate in fondo) scomparso giovanissimo a causa di un male che gli provocò dolore e sofferenza oltremodo esagerate. Ne descrisse il calvario con minuziosa memoria al punto che commosse tutti. Nonostante Ennio non viva più qui da anni, tanti amici di infanzia e di adolescenza commentarono, chi con una frase, chi con un cuore. Quel post fu occasione di condivisione e di incontro tra persone che si conoscevano da sempre ma che al massimo si scambiavano un ciao, e nulla più, all’incontrarsi per strada. Tra le tante reazioni, i tanti commenti ce ne fu uno in particolare che spiccò su tutti.

“Eh sì, Caro Ennio, ci si arrabbia perché il cellulare è scarico, perché non c’è il WI-FI nel posto in cui ci si trova, perché c’è la coda per strada e non si ha tempo da perdere, perché arrivano bollette su bollette da pagare e sempre più alte…. poi, d’improvviso, ti imbatti casualmente nel racconto che scrive un tuo vecchio amico d’infanzia, lo assorbi tutto di un fiato, come, son sicuro, avranno fatto tutti gli altri che hanno letto, e ti fermi, e finalmente dai spazio a una riflessione, a delle considerazioni che questa vita frenetica ti costringe a saltare e reprimere ed ecco, che quasi per magia, vivi una giornata improvvisamente diversa dalle altre; non ci sono parole adatte per spiegare le sensazioni che ho provato, non le cercherò, mi basta aver compreso che poche righe che evocano e rievocano un epilogo, a me purtroppo noto, possono ridarti una dimensione migliore ed equilibrata, almeno per un po’.

Certo avrei voluto non leggerle mai queste parole, segno che questa dolorosissima e drammatica vicenda non sarebbe accaduta, e invece, è andata così, come in altre circostanze che ci hanno visti entrambi impegnati ad affrontare situazioni nelle quali abbiamo dovuto esser forti, fin da bambini, col dover fare i conti con qualche affetto caro che ci lasciava in modo repentino e tragico. E’ triste dirlo, ma abbiamo voce in capitolo e la mia mente è andata all’indietro, come un vecchio nastro che si riavvolge: noi bambini che giocavamo nel piazzale, tua mamma che portava talvolta quel tuo piccolo fratellino facendo attenzione alle pallonate da destra e sinistra o a non essere investita da una delle nostre biciclettine da cross.

Già tua mamma, tuo papà, le classiche persone a modo, sempre educate, mai una parola fuori posto o con tono alterato. E allora ti chiedi…. Perché? ti fai tante domande, pensi a tanti giovani che buttano via l’esistenza riempiendosi di porcherie o correndo troppo sull’asfalto credendosi immortali, e inevitabile viene il raffronto con un giovane mite, di buon carattere e senza troppi grilli per la testa di qualche tempo fa, che avrebbe dato chissà cosa per poter rimanere a questo mondo. Vi è rimasto aggrappato finché ha potuto, e solo l’accanimento di quel male crudele lo ha trascinato via, tenendolo vivo nella memoria e nel ricordo. Volevo farti un piccolo, seppur affettuoso rimprovero, Ennio, per questo tuo racconto, bellissimo e toccante, ma che espone in pubblico aspetti quanto mai delicati e riservati. Ma poi ci ho ripensato, hai avuto coraggio e hai dato sfogo al tuo stato d’animo. anzi, aggiustando un po’ l’esposizione e contornandolo di altri aspetti e tue riflessioni, potrebbe essere addirittura un bel libro, sicuro del fatto che sarebbe d’aiuto a chi si arrabbia per il cellulare, per WI-FI, per il traffico e le tante spese. Grazie per l’attenzione a chi è arrivato fino qui, e grazie a te, Ennio, per l’ospitalità sulla tua pagina un abbraccio”

Immediatamente Ennio rispose così:

“Vorrei spiegare il motivo di questo mio post. Innanzi tutto non ha nessun intento di esibizionismo e nemmeno di ricerca di compassione. L’ho scritto ieri notte, di getto con le lacrime agli occhi. In una notte in cui il ricordo era più vivo che mai, ho avuto l’esigenza di ringraziare pubblicamente di vero cuore chi ha amato ed ama tutt’ora mio fratello, anche se non ha partecipato attivamente all’evoluzione, che io ho percepito più come involuzione, della sua malattia. Un grazie particolare va alla sua maestra Adriana Somenzi, che lo ha amato come un figlio. Ho inoltre voluto dire che sono vicino a tutte le persone che hanno subito o che subiscono questo oscuro viaggio, mentre lo scrivevo, pensavo anche a tutti gli amici che ho perduto, a tutti gli amici che stanno vivendo una brutta malattia, ai genitori dei miei amici, alcuni dei quali vivono o hanno vissuto calvari da fantascienza oscura, e che sono pienamente consapevole del loro dolore di cui ho la massima comprensione”.

Fu così che un gruppo di coetanei cresciuti insieme e divenuti negli anni semplici conoscenti, decisero di vedersi, di incontrarsi, di sedersi a un tavolino, di tornare a parlarsi dal vivo, di tornare a scambiarsi umanità al posto di qualche opinione, spesso diversa, buttata sui social in maniera sterile; ma soprattutto decisero di ricordare gli amici che oggi sarebbero coetanei, che se ne sono andati via troppo presto. La triste storia di Massimino, raccontata in maniera estremamente intesa e commovente dal fratello Ennio su Facebook, ha esorcizzato la tristezza e ha sortito questa, che è al contrario, una bella storia: il gruppo di amici ha organizzato, con la collaborazione e l’approvazione di Don Claudio Rubagotti, una Messa in ricordo di tutti gli amici e le amiche che ci hanno lasciato prematuramente. La Santa Messa si svolgerà domenica 15 Dicembre in Duomo alle ore 10.30; sarà celebrata da Don Rubagotti, con la partecipazione dei Joy Voices, di Arianna Novelli che prenderà un momento speciale per ricordare le anime volate via e una probabile sorpresa finale. Gli organizzatori, che desiderano rimanere nel totale anonimato, hanno sentito l’esigenza di fermarsi un momento, fermare le frenesie individuali per raccogliersi, unirsi e rivolgere un pensiero a chi, anche se non fisicamente, rimane e rimarrà sempre con noi. La Messa è dedicata a loro, che sono dall’altra parte, nella stanza accanto, ma è dedicata anche a tutti noi che siamo ancora qui, con l’auspicio che si torni ad incontrarsi, a stringersi la mano, ad abbracciarsi, a ridere insieme, ad aiutarsi.

Gli organizzatori ringraziano tutti coloro che hanno collaborato e in special modo coloro che vorranno partecipare a questa Messa in ricordo e che ha in sé l’ambizione di risvegliare quei sentimenti e quell’unione che legarono quei bambini e quei ragazzi di allora.

Giovanna Anversa

 

IL RICORDO DEL FRATELLO MASSIMO. DI ENNIO BARBIERI

Vi racconto una storia triste… una come tante altre…

Un giorno un ragazzo di quindici anni dolce come il miele, volle accompagnare il proprio padre ad una visita oculistica. Strada facendo il padre rivolgendosi al figlio gli chiede se lui invece vedeva bene, il figlio rispose che ultimamente la sua vista era molto peggiorata, allora il padre decise di farlo visitare.

L’oculista molto attento, lo visitò per ben due ore, comprendendo che l’occhio era perfetto e che il problema era dietro, avvisò il padre e lo ricoverarono nel reparto di oculistica di un grande ospedale. Vi rimase ben 20 giorni che sono tanti per un tumore alla testa non ancora diagnosticato. A quel tempo i posti letto in neurochirurgia erano solo venti, fuori c’era la fila di persone che arrivavano da tutta Italia, era difficilissimo avere un posto, un posto da miracolati dicevano.

Dopo venti giorni venne libero un posto in neurochirurgia anche per lui. Lo mandarono in un grande ospedale a Milano dove possedevano la famosa risonanza magnetica, macchinario negli anni ottanta rivoluzionario e costosissimo per qualunque ospedale, un evento eccezionale all’epoca, difatti fu il primo proveniente da un altro ospedale, a sottoporsi a quell’esame.

Il fratello grande durante il viaggio di ritorno in treno guardava queste lastre stupefacenti alla vista, pur non comprendendo nulla del male che vie era rappresentato. Diagnosticarono un tumore al cervello, oramai radicato in profondità. Fece ritorno alla sua neurochirurgia in ambulanza e nei giorni seguenti perse la vista. Decisero di fare un drenaggio al cervello, per togliere la pressione del liquido cerebrospinale che premeva sul nervo ottico e il ragazzo riacquistò la vista.

Passarono ancora giorni fino a quando decisero di operarlo per tentare l’asportazione del tumore cerebrale. Dopo due ore dall’intervento, uscì dalla sala operatoria il primo chirurgo dicendo ai genitori che il tumore era una massa molle e che sembrava venire via bene. Ad operazione conclusa, riferirono ai genitori che avevano fatto il possibile ma che era talmente radicato nel cervello da renderlo inasportabile. Quindi al ragazzo diedero solo tre mesi di vita cosa che fece cadere nella disperazione tutti i famigliari.

A quel punto fu indicato ai famigliari di portarlo in un altro ospedale molto attrezzato per la radioterapia, si trattava di radiazioni sparate nelle zone tumorali. Cominciò un altro calvario mostruoso per il ragazzo, a quel tempo si usava il pennarello ed un metro da sarta per segnare sul corpo i punti da irradiare. Potete immaginare la grossolanità dell’irradiamento, se penso che oggi la radio terapia viene fatta con raggi laser molto precisi…

Dopo una lunga serie di radiazioni, il ragazzo perse tutti i capelli che mettevano in evidenza tutte le cicatrici sulla testa, la perdita dei capelli per lui fu uno dei drammi maggiori; lo so fa sorridere, ma fu così, come per il mancato conseguimento della patente di guida che aveva iniziato dapprima come perfettamente sano, poi bloccato da ammalato che lo portò ad una forte depressione e senso di inferiorità verso i suoi coetanei. Arrivò il Natale e siccome era debilitato, era vietato al tempo uscire dall’ospedale, ma i medici per lui dopo riguardose istruzioni, chiusero un occhio e lo fecero tornare a casa per pochi giorni per permettere alla famiglia di ritrovarsi unita durante quel calvario terribile…

Nel frattempo arrivò una nevicata di proporzioni storiche, tutta la viabilità bloccata per due settimane. Il ragazzo doveva assolutamente tornare in ospedale pena un aggravamento del tumore. Partirono in taxi, dopo 20 km di buche spaventose nel ghiaccio, il tassista alza bandiera bianca e torna indietro. Il giorno dopo i genitori decidono di portarlo in treno, che arrivò quasi nella stazione di destinazione, ma rimase fermo al freddo per un paio di ore causa un guasto.

Il padre chiamò il capotreno spiegò che il figlio era in pericolo di vita e che aveva assolutamente bisogno di riprendere le cure e che non poteva prender freddo, pena la morte. A quel punto con il centro di controllo della stazione ferroviaria, decisero di fare una cosa molto pericolosa, fecero spostare dei treni fermi in stazione, per permettere a questo treno di giungervi per potere scaricare il malato. Così fecero, rischiando la collisione con un treno in transito ad alta velocità.

Sembrava di essere in un film, invece era tutto reale, per fortuna tutto andò bene. A ricevere il ragazzo malato due portantini con barella e tanto di ambulanza. Il ragazzo, sotto la sua sciarpa, mangiava di nascosto una merendina sorridendo al padre. Lo caricarono d’urgenza in ambulanza per portarlo in ospedale, ma il viaggio fu spaventoso, le strade erano completamente allagate, circa 40 centimetri di acqua ovunque a causa della neve che già si stava sciogliendo.

Ricominciarono le terapie con il supporto giornaliero della madre che viveva in una pensione per assistere il figlio, ma un giorno accadde un imprevisto spaventoso. Il telefono squillò a casa dei genitori, rispose il padre appena tornato da un durissimo lavoro, il primario lo informava che il figlio giaceva nel reparto dermatologico in quanto aveva contratto anche un morbo raro, di LYELL, dissero che vi era un caso ogni 50 anni e che giaceva in stato comatoso in pratica ne avrebbe avuto per poco a suo dire.

La sindrome di Stevens-Johnson è una rara, grave malattia per la quale la pelle e le mucose reagiscono duramente a un farmaco o ad una infezione. A quel punto il padre partì per raggiungere moglie e figlio in ospedale. Il figlio giaceva avvolto come una mummia in garze imbevute di un unguento per tenere morbida la pelle. Le medicazioni furono spaventose, presentava ustioni del massimo grado su tutto il corpo esclusi i palmi delle meni e piedi.

Bolle nella pelle spaventose che scoppiavano con la fuoriuscita di sangue e pus. Un inferno per la madre che tutti i giorni partecipava alle medicazioni, e che in continuazione tamponava il sangue sul viso rimasto libero dalle garze, il problema era che non aveva queste piaghe solo esternamente, ma anche dentro tutto il corpo, organi compresi, un dolore inimmaginabile per lui. Ma, in barba ai pronostici, In sole due settimane il ragazzo, non solo usci dal coma, ma cambiò completamente pelle.

Ogni sabato i fratelli ed il padre andavano a trovare il ragazzo, durante la settimana si lavorava perché i soldi non bastavano mai, il padre aveva deciso di vendere la casa pur di tentare l’impossibile. Ogni settimana nel letto a fianco del suo, il compagno di stanza cambiava, infatti il figlio più grande chiedeva sempre alla madre: ”ma quel ragazzo? che fine ha fatto?” e la madre chiudendo gli occhi e scuotendo la testa piegandola su un lato, lasciava intendere che aveva fatto una triste fine, perché chi non moriva in ospedale, tornava a casa a passare gli ultimi momenti. I genitori degli altri pazienti, prima di andarsene guardavano la madre del ragazzo ammalato, come uno fortunato, uno miracolato perché aveva raggiunto il quinto anno di malattia, cosa che come genitore, ti fa morire dentro, perché da un lato ti senti felice, dall’altro ti vergogni e muori dentro.

Una visione ed una situazione che ti distrugge dentro piano piano, portandoti a vedere ed interpretare la vita in modo differente. Finalmente si fece l’ultima visita del quinquennio e il neurochirurgo si lasciò scappare una cosa terribile. Disse che il ragazzo malato, a causa delle fortissime dosi di radiazioni, (purtroppo per salvarlo avevano tentato il tutto per tutto visto che aveva solo tre mesi di vita), aveva le cellule come quelle di un ottantenne, spiegando che insieme alle cellule cattive venivano uccise molte cellule buone, ma quelle che sopravvivevano invecchiavano mostruosamente.

A quel tempo i medici si guardavano bene dal fare certe affermazioni. Il ragazzo per un certo periodo riuscì a vivere quasi autosufficiente in tutto, ogni tanto rischiava di cadere per le scale, a causa dello scarso controllo del corpo dovuto al tumore che si stava estendendo anche alla colonna vertebrale. Per alcuni anni i suoi genitori si illusero di avere salvato il proprio figlio. Una sera un amico di famiglia ci disse di averlo visto per strada camminare e finire all’improvviso in terra proprio durante la fiera.

Si pensava fosse inciampato, ma questa persona era certa che fosse caduto all’improvviso. Il ragazzo malato, mai aveva pianto, mai si era lamentato di nulla durante tutto questo martirio… mai… Finché alla fine 5 anno, cominciarono i veri intoppi; dopo controlli continui, arrivò anche l’elettromiografia per la diagnosi delle malattie neuro-vascolari; il ragazzo cominciava a mostrare seri blocchi motori.

Apertasi la porta, il macchinario dell’elettromiografia appariva alla vista come qualcosa di spaziale anni 50, altamente tecnologico. Entrarono padre e figlio malato, l’altro figlio rimase fuori su una panca in metallo verniciata di bianco le classiche panche da ospedale degli anni 50/60. Dopo due ore su una panca fredda e scomodissima, la curiosità del figlio rimasto fuori diventò grande ed entrò per vedere cosa gli stavano facendo.

Vide il fratello che veniva penetrato a ciel sereno con aghi lunghissimi e di grande diametro spinti dentro la mano tra pollice e indice, oppure nel piede nel lato esterno della caviglia. Il fratello rimase paralizzato, nel vedere quegli aghi penetrare nella carne, ed il fratello malato che ritraeva la mano dal male. Tale vista fu sconvolgente, talmente sconvolgente da portare quasi allo svenimento. Il fratello che subito si apprestò ad uscire per sdraiarsi sulla panchina e cercare di riprendersi.

Tre ore di inferno così, una cosa indescrivibile veramente. Mentre facevano questo esame, il medico che era di un ospedale differente da quello dove il ragazzo aveva ricevuto le alte radiazioni, disse al padre di ricordare benissimo il fatto accaduto 5 anni prima di un ragazzo che era stato irradiato per errore con alte radiazioni; in pratica spiegò che suo figlio aveva ricevuto una quantità tale di radiazioni su tutto il corpo, dentro e fuori, come se lo avessero completamente immerso in un bidone di olio bollente, praticamente fu bruciato vivo.

In sintesi alla fine della tremenda visita, il padre prese da parte suo figlio malato e gli disse: ”BAMBY, NON TI PREOCCUPARE QUESTA PER TE E’ STATA L’ULTIMA VISITA, NON TI PREOCCUPARE NON TE NE FARO FARE MAI PIU’” La diagnosi fu che il tumore era ripartito ed era in metastasi, al ragazzo rimaneva poco da vivere. Fu una morte crudele e lentissima, ogni giorno peggiorava, divenne cieco, si paralizzarono tutti gli arti, perse l’uso della parola, aveva piaghe alle caviglie che arrivavano all’osso che la madre disinfettava e medicava ogni giorno.

A causa della mancanza di soldi si decise di chiedere aiuto anche alla sanità, cosa che per orgoglio personale e rispetto verso altri malati non fu mai fatto in precedenza. Vennero due medici per decidere se dare l’accompagnamento, uno dei due medici diceva che non la meritava, l’altro più giovane invece diceva, ma questo ragazzo è cieco e completamente paralizzato, come non possiamo darla? Dopo pochi mesi il ragazzo comunque ebbe un forte peggioramento improvviso, non rispondeva più agli stimoli esterni, agitava la testa avanti indietro e basta (In pratica andò in precoma).

I genitori decisero di dormire con lui capirono la gravità della cosa. Nella notte lui si svegliò e chiese da mangiare, per poi riaddormentarsi in un coma profondo. Il cuore cessò di battere il giorno seguente. Anche il dottore che lo aveva curato e seguito assiduamente, anche se abituato a vedere tanti malati terminali, pianse assieme ai presenti compreso il prete amico di famiglia.

Il padre impazzi dal dolore imprecando contro DIO. Il prete persona molto intelligente, gli disse che aveva ragione. Il fratello maggiore, vedendo un’amica di famiglia saltare addosso al fratello oramai morto che urlava dobbiamo vestirlo prima che diventi freddo, sballottandolo come un pupazzo, con la testa che ciondolava da ogni parte senza controllo alcuno, con le lacrime, prese tra le mani i suoi piedi ancora caldi…. loro lo sballottavano come un pupazzo e lui, paralizzato, continuava a stringere i piedi caldi del fratello perché non lo toccassero più. Non voleva abbandonare il fratello al suo triste destino.

Ennio Barbieri ha aggiunto poche parole al racconto, per ringraziare due persone che in quei giorni vissero, insieme alla famiglia, tutto quell’infinito dolore. “Un grazie particolare va alla sua maestra Adriana Somenzi, che lo ha amato come un figlio ed al Dott. Alessandro Tei, per essere stato sempre presente fino all’ultimo suo respiro”.

© Riproduzione riservata
Caricamento prossimi articoli in corso...