Reperti archeologici del casalasco nelle scatole, difficile ritirarli fuori
Una serie di stretti vincoli e di rigide normative - impossibili o quasi da portare a compimento - impediscono di fatto che la soprintendenza restituisca al territorio di appartenenza i propri reperti

CASALMAGGIORE – Costruire una centrale nucleare è probabilmente più semplice che riportare a casa i reperti archeologici del casalasco. Una serie di stretti vincoli e di rigide normative – impossibili o quasi da portare a compimento – impediscono di fatto che la soprintendenza restituisca al territorio di appartenenza i propri reperti. Che appartengono comunque allo Stato, secondo la normativa, ma che sono parte della storia di un territorio specifico.
Meglio dunque in qualche scatola di cartone in qualche deposito, a far compagnia ai ragni e al buio. In Italia va così. E così sono molte di più le opere d’arte e i reperti archeologici dei depositi che quelli che raccontano la storia di un territorio, fruibili al pubblico.
Centro Casalasco di Studi Paletnologici. Il consiglio comunale di Casalmaggiore ha affrontato ieri notte la questione, grazie a un’interrogazione del consigliere Alessandro Rosa (Listone), che ha posto alcune domande all’amministrazione dopo aver fatto un velocissimo preambolo sull’importanza che quel gruppo di volontari pionieri ha avuto nella riscoperta della storia più antica del territorio.
A rispondere all’interrogazione in maniera puntuale ed accurata l’assessore alla cultura Pamela Carena. “E’ la storia di un’attività sicuramente meritevole di un gruppo di studiosi del territorio. Un gruppo che fece tagli più che scavi, che fece alcune pubblicazioni e fu attivo tra gli anni 60 e 70. Si parla di questi reperti che nello specifico erano della media età del bronzo che erano soprattutto oggetti di uso quotidiano personale, arredo domestico, armi rudimentali, arnesi da lavoro. Una storia che ha portato alla fine nel febbraio del 1999 al ritiro di tutti questi materiali catalogati da parte della soprintendenza”.
Ad oggi, e dopo il riordino delle soprintendenze, non si sa neppure più se i reperti siano ancora a Milano o abbiano viaggiato, dal buio della capitale lombarda al buio di qualche altro deposito. “Ad oggi risulta che tutti questi materiali siano in deposito, nel deposito milanese della soprintendenza e so che almeno sino a prima del 2016 erano ancora lì. Dal 2016 in poi, con il riordino delle soprintendenze, ho il dubbio che siano ancora lì. I tempi dell’interrogazione non mi hanno permesso di approfondire la questione”.
Nel faldone che riguarda la questione, una fitta corrispondenza tra amministrazioni e soprintendenza: “La parte più interessante del faldone è la corrispondenza tra gli amministratori locali e la soprintendenza che vanno dagli anni 90 al 2000. Era una corrispondenza abbastanza fitta perché va detto ad onor del vero, che amministrazioni precedenti hanno provato a portare a termine questa idea di museo paletnologico, a Casalmaggiore. Chiesero dei contributi anche a Regione Lombardia che vennero concessi e di fatto anche revocati poi perché la soprintendenza non diede mai il suo benestare a questo progetto di museo e peraltro esiste una convenzione che è ritornata non firmata da parte della soprintendenza. Perché è importante questa corrispondenza? Intanto perché la soprintendenza è molto chiara sulle normative vigenti e le richieste che la soprintendenza avanzava per quel che riguardava l’esposizione o anche il mantenimento di questi reperti. Ed era chiara su quali fossero le mancanze e le difformità per ottemperare a queste richieste. Tra le varie azioni era stata intrapresa una possibilità con la collaborazione del museo di Piadena, fallita anche questa”.
“Una cosa però è importante sottolineare. Che tutto quello che viene trovato sotto il terreno non è di proprietà civica, ma è di proprietà dello Stato secondo la legge. Questi beni in realtà sono da sempre propietà dello Stato, la competenza era designata alla soprintendenza, al tempo era l’archeologica di Milano. Tramite conoscenze personali ho contattato anche archeologi e consulenti per la soprintendenza e ho cercato di capire se quella rigidità fosse ancora attuale e capire quale fosse l’orientamento. Mi è stato detto che all’epoca c’era una chiusura pressoché totale e che oggi non è più così, però ogni eventuale iniziativa deve essere strutturata con una programmazione di lunga durata e di sostenibilità. In una lettera del 1998 c’è una cosa molto importante che la soprintendenza scrive e che deve rimanere alla base di tutti i ragionamenti che si fanno oggi o che si faranno in futuro. Diceva la soprintendenza che si fa inoltre presente, tra le altre cose che non andavano, che un’ipotesi di convenzione con il comune, perché è una pratica possibile, la soprintendenza può concedere in deposito il materiale, dia effettivamente alle parti la possibilità di promuovere attivamente le attività culturali attraverso l’individuazione di strumenti idonei. Si richiede sicuramente la presenza di una struttura museale, devono avere tutta una serie di standard riguardanti il museo, devono essere allarmate ed avere un deposito che garantisca tutti i termini di sicurezza anche del materiale eventualmente non esposto, la necessità che ci sia un conservatore archeologo, la custodia deve essere garantita così come l’apertura al pubblico, non all’interno soprattutto di un contenitore multidisciplinare e possibilmente non essere esposizioni statiche ma che possano essere affiancate da tutta una serie di attività di studio e di ricerca ed eventualmente anche di attività laboratoriale e didattica costante. Tutto questo per dire che chiaramente le risorse richieste e le azioni per agire in questo senso ad oggi non sono percorribili e non sono state prese in considerazione. Penso che siano state quelle le cose che hanno reso le amministrazioni ‘poco inclini’ o chi ha evitato di approcciarsi alla questione”.
Rosa ha poi ribattuto apprezzando la parziale apertura, quantomeno la volontà politica con tutte le difficoltà del caso. Rosa ha spiegato che la questione verrà eventualmente riportata in mozione per coinvolgere nella discussione tutto il consiglio. Resta il fatto che, al momento, e per tutto quanto detto, sembra impossibile o quasi ogni iniziativa per ridare valore e dignità a tutto quel lavoro iniziato cinquant’anni fa da un gruppo di volontari. Vincono comunque le scatole. Sia quelle depositate che quelle che si frantumano a chi decide di intraprendere una strada impervia che ha a che fare con la dura legge della burocrazia.
Nazzareno Condina