Cronaca

Centotrenta giorni dopo. Il ponte, la ferrovia e la vita (che passa)

Persone lasciate sole o quasi dalle istituzioni, con l'allegria dei naufraghi e poco tempo ancora per resistere, senza un aiuto concreto e qualche certezza in più.

Foto: Stefano Superchi

CASALMAGGIORE – 40% di sconto alle imprese e agli artigiani sulla Tari (la terza rata). Qualcosa in più dell’elemosina, ma meglio di niente. Il niente è quello che vive, sulla propria pelle, il resto della gente, abbandonata a se stessa dal 7 settembre scorso. Nessun incentivo, nessuno sconto, nessuna prospettiva se non quella di continuare a pagare un prezzo alto, altissimo all’incapacità delle istituzioni di guardare avanti, di guardare oltre. Di pensare che un ponte prima o poi può spegnersi, che una ferrovia prima o poi può servire integra ed efficente. E non è solo una questione economica. E’ pure – e soprattutto – una questione di tempo.

Questa mattina, in stazione a Casalmaggiore, hanno lavato i cessi. La riapertura quella ancora no. Senza fretta. Tanto c’è tempo e ci sono gli angoli dell’ex scalo merci da saturare. C’è chi si adatta, verso il fondo dello scalo, a farla tra l’erba, i resti dell’asfalto e il freddo dell’alba. In fondo, il 95% è acqua e dagli altri residui forse un giorno cresceranno fiori.

“Una situazione insostenibile” ci spiega Chiara Mina che quel treno suo malgrado è costretta a prenderlo, come fa la figlia Elena per studiare. Giura, come tanti altri, di aver assistito a scene paradossali. Lei, come tanti altri, si è stancata: “Vado a fare denuncia all’Asl per mancato servizio di necessità. E’ un servizio che garantisce l’igiene pubblica e non puo venire meno”. Forse non servirà. La pressione del primo cittadino di Casalmaggiore Filippo Bongiovanni e le reiterate proteste di questi mesi – non ultima l’azione del Comitato Trenopontetangenziale forse un effetto lo hanno sortito, i bagni – come spiegato dallo stesso sindaco – verranno riaperti presto, appena risistemati. Presto resta un eufemismo, e per ora è una speranza. Ma è già un passo in avanti.

Non sono i cessi l’unico problema, anche se sono un problema al momento irrisolto. Servono settimane di burocrazia per aprire due porte, lettere a cui nessuno dà risposta, domande su domande a burocrati sconosciuti ma dagli ottimi compensi per sperare di ottenere ascolto. Sperare. Un termine che sembra una barzelletta a queste latitudini. Lombardia sud, Emilia nord. A cavallo tra le Regioni più floride d’Italia, l’una a guida destrista, l’altra sinistrosa. Tanto così, per non far torto a nessuno.

Tutte le stazioni, sia sul lato cremonese che su quello parmense, versano nelle stesse condizioni. Abbandonate o semiabbandonate a se stesse: pagano anni di contrazione della spesa, algoritmi di calcolo sui viaggiatori, risparmio selvaggio. Non sono autostrade, non muovono milioni di euro, ma sono e restano cattedrali (o chiesette di campagna) nel deserto. “Ti invito a prendere un treno – ci spiegava I.S., anche lei costretta a spostarsi giornalmente dal cremonese, dove risiede, a Colorno, dove lavora – perché la situazione è difficile da spiegare. Non ci si può rendere neppure conto di quello che è il servizio ferroviario”.

Da mesi ormai seguiamo le vicissitudini dei pendolari che di disgrazie ne vivevano già prima della chiusura di ponte Po e le hanno viste crescere. Centinaia di persone, migliaia considerando i pendolari anche su ruota (o a piedi, perché ci sono anche quelli) lasciati soli nonostante le tante promesse, le campagne elettorali e le parole. Gente che ha sempre meno tempo da trascorrere con i figli, come M.G., ricercatrice di Piadena che si sposta a Parma per lavoro. “La qualità della mia vita è peggiorata. Prendo treni quotidianamente per andare al lavoro, pago regolarmente l’abbonamento anche se non mi vengono garantiti i servizi minimi”. O S.P., commerciante casalasca della quale abbiamo raccontato la storia qualche giorno fa. Il suo compagno di vita risiede a Coltaro, lei va e viene, e pure lui che a volte quel ponte maledetto lo passa a piedi.

Sono tantissime le storie di vita che emergono, a mano a mano che passa il tempo. Quelle di gente senza nessuno sconto su nulla, che paga con le proprie tasche la miseria della rete dei trasporti. Gente a cui il tempo viene costantemente rubato. “Per lavoro – spiega Luigi Pagliari da Piadena – due volte alla settimana mi reco nella zona di Massa. Prima della chiusura del ponte andavo e ritornavo in giornata adesso devo fermarmi in hotel perché il viaggio è diventato troppo lungo. I costi sono più che raddoppiati e il disagio è molto pesante”.

Paradossale anche la situazione di Walter Parazzi e del fratello. Lui, di Casalmaggiore, lavora a Viadana ma fa l’allenatore a Parma di basket, la sua passione. In estate l’accordo con la società parmense e siccome lo sport per lui è una passione e non un lucro, si era accontentato di considerare un rimborso spese per il suo impegno. Dal 7 settembre in poi le spese sono lievitate, insieme ai km da fare. Non è l’unica storia, di storie come la sua ce ne sono altre.

“Mio nipote – racconta Laura Righi – di Casalbellotto lavora a S Polo. Come tutti passa il ponte a Viadana e tutti i paeselli. Come tanti si alza un ora prima, come molti la sera torna stanco. Dieci giorni fa, sulla strada della zona di Boretto, causa fango sulle strade basse, ha fatto un incidente. Gli è andata bene, la macchina non è da vedere”.

Non così bene è andata ad una mamma ed una figlia di Casalmaggiore, E.M. e A.S., protagoniste loro malgrado di un incidente, il 9 gennaio, sulla via Mantova a Bogolese. La loro auto si è ribaltata e sono state costrette ad usufruire dell’ospedale, entrambe con ferite di media gravità. Sarebbe successo lo stesso? Chissà. L’unico dato certo è che lo stress, e i tempi in strada sono aumentati, la stanchezza pure, e sempre meno sono le ore da poter dedicare al relax, alla propia famiglia.

C.M., vive a Martignana e lavora, in ambulatorio tra Parma e Monticelli. Anche la sua è una vita cambiata da quando il ponte ha chiuso. E’ già rimasta bloccata nel traffico, parte ore prima per essere sicura di arrivare in tempo agli appuntamenti. Che – per una libera professionista – sono la fonte di sostentamento. Di tanto in tanto chiede sconsolata quando riapriranno il ponte, quando la sua vita tornerà quella di prima, quella di sempre. Vorremmo darle delle risposte, ma non ne abbiamo. Spesso non è a casa prima delle 21, ed è via dalla mattina. Una vita dura, anche la sua. Una vita di cui non frega niente, a nessuno.

C’è chi è poi un po’ più fortunato. Ci sono anche imprenditori di cuore. “Lavoro a Parma dal 1995 – racconta Marzia Poli – e nel corso degli anni ho alternato l’uso del treno con quello dell’auto. Fino a metà novembre la mia sede di lavoro era in zona centrale di Parma, quindi accessibile con gli autobus o la bicicletta dalla stazione. La mia vecchia ditta è stata ceduta e la nuova sede di lavoro è diventata Lemignano di Collecchio. La distanza, passando per San Daniele, è di circa 60 km. Siccome ho incontrato persone intelligenti, mi è stato concesso lo Smart work è da gennaio posso lavorare da casa 2/3 giorni la settimana. Tutto sommato non va così male”.

Poi ci sono le storie che non riguardano il lavoro. Perché non è solo il lavoro a pesare, ma la presenza di affetti e la possibilità di essere a loro vicini: “Per me la chiusura del ponte significa essere molto più lontano dai miei genitori ormai anziani – spiega Lorenza Marenzoni – Abitano a Trecasali e con il ponte erano a circa 20 minuti da me, ora 45/50 minuti. Se si ammalassero e avessero bisogno di me tutti i giorni sarei in serie difficoltà, lavorando tutto il giorno. Ho bisogno del ponte che mi collega con la mia famiglia. Ma credo che tutto sia inutile, mancano i fondi e poi, se anche ci fossero, la burocrazia e la lentezza della macchina pubblica non ci permetterà di avere una soluzione a breve. Credo che noi, semplici cittadini, possiamo fare ben poco”.

Il cittadino può fare ben poco da solo. Qualcosa in più se si organizza, come a Casalmaggiore, in Comitato. E’ proprio il Comitato Treno Ponte Tangenziale in questi mesi ad aver dato prova di determinazione, e di coraggio. Due esposti – al momento inascoltati – in procura. La pressione su tutti gli organi competenti affinché si muovano, facciano qualcosa. Il loro presidente, l’avvocato Paolo Antonini, sembra sempre un gigante in mezzo a tutto il resto.

E tutto il resto è al momento poca cosa. La luce di un cero consunto che si affievolisce, di giorno in giorno. Le speranze che diminuiscono, a poco a poco e una crisi che si fa sempre più profonda. C’è un’attività, con quattro dipendenti subito al di qua del ponte, che presto si vedrà costretta a lasciarne a casa almeno due, se non tre. E non è l’unica. Ci sono operai che si stanno mangiando i permessi e le ferie, in ore perse e non per propria volontà. C’è chi resiste, tanti capitani Achab nel mare in tempesta di fronte ad un Moby Dick gigantesco.

Persone lasciate sole o quasi dalle istituzioni, con l’allegria dei naufraghi e poco tempo ancora per portar pazienza, senza un aiuto concreto e qualche certezza in più.

Nazzareno Condina

© Riproduzione riservata
Caricamento prossimi articoli in corso...