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Paolo Panni, grido di dolore dell'eremita del Po: "I piccoli borghi non devono morire"

Mi chiedo quali attività abbiano svolto, nella loro vita, i figurini col cappio al collo (i benpensanti ci leggano “cravatte” e non cose strane) che oggi occupano vellutate e ricche poltrone e, con un colpo di carte, in poche righe, decidono con tanta superficialità e pochezza, il destino di decine di migliaia di persone

ZIBELLO – I piccoli Borghi non devono morire. Con questo grido di dolore Paolo Panni, l’eremita del Po, ha messo in piedi una singolare protesta per chiedere che non ci si dimentichi delle terre basse, della loro storia, delle loro tradizioni e della loro specificità.

I piccoli borghi hanno pagato – e stanno pagando – un prezzo altissimo alla pandemia. Stravolti da regole valide per città e centri grandi applicate a realtà che hanno e da sempre scandito i loro tempi al ritmo delle stagioni. Saracinesche abbassate, piccole attività chiuse e altre che chiuderanno per sempre.

I piccoli borghi non devono morire, e la protesta dell’eremita non è valida solo per i piccoli borghi che conosce, ma pure per tutti quelli che sono caratteristica saliente dell’Italia. Questa la lunga riflessione dell’eremita del Po.

Oggi ero seduto, in silenzio, sulla solita vecchia lanca intento ad ascoltare la serenata di un merlo appollaiato sul ramo di un salice quando, ad un tratto, mi sono sentito raggiungere da un giovane del paese che, dopo il rituale saluto, mi ha incalzato con una sorprendente domanda: “cosa ci fai sempre solo a Po?”.

Ho pensato, con un sorriso, che ha avuto più coraggio di una signora che, qualche giorno prima, vedendomi seduto su un albero con un taccuino in mano, dopo avermi chiesto “cosa ci fa lei lassù?” ha pensato bene di darsela a gambe, ritenendomi forse un individuo pericoloso o magari, semplicemente, un matto.

“Solo? – dico rivolto al ragazzo – chi è solo scusa?”. Quasi intimorito indica con un gesto della mano, senza proferir parola, la mia persona. “Io – gli ribatto ancora – non mi sono mai sentito solo e non credo di esserlo”.

In quel momento, quasi a voler sostenere la mia tesi, uno stormo di gru in migrazione passa sopra le nostre teste e un airone, ormai sazio dopo essersi abbuffato di pesci, per oltre un’ora, tra le acque della lanca, si alza in volo.

“Direi – dico rivolto ancora al giovane – che qui la compagnia abbonda. Ma ci sono anche i pettirossi, le poiane, i cormorani, i gabbiani e le cinciallegre, i corvi e le gazze a tener banco. E’ una compagnia costante, quotidiana e preziosa, della quale non potrei mai fare a meno. Lo sai – aggiungo – che tu potresti essere solo anche quando sei in mezzo a una fiera o insieme ai tuoi amici? La solitudine è una dimensione intima e personale. Ogni volta che ti senti vuoto, o non ti poni delle mete nella vita, sei solo. Quando invece, anche nell’essenziale, trovi soddisfazioni, emozioni, motivazioni e appagamenti, non puoi avvertire alcuna forma di solitudine”.

Non so se le mie parole possano averlo convinto, visto che pochi istanti dopo si è di nuovo incamminato verso il paese: ma tant’è.

Io, invece, ho ripreso il cammino, tra pioppeti, argini e carraie. Mi nuovo a piedi perché è nel cammino che trovi il piacere dell’essenzialità; è nel passo dopo passo che trovi le risposte a tante riflessioni. Ancora una volta non so se il terreno calpestato è “colorato” di giallo, arancione o rosso. Onestamente non mi interessa. Per quanto mi riguarda, il solo colore, da un anno a questa parte, è il marrone intenso.

Mi muovo in silenzio e da solo, non posso quindi essere accusato di nulla e nessuno può vietarmelo. Continuerò a farlo, senza esitazioni: questo non me lo priveranno.

La televisione la ho spenta da tempo; non seguo più i rotocalchi e i “martellamenti” quotidiani e questo mi rende molto più sereno e, soprattutto, libero. Di certo non solo.

Pochi chilometri più avanti mi fermo ad osservare, da lontano, un contadino col suo trattore intento a lavorare la terra, preparandola per la semina e il successivo raccolto estivo. Perché in campagna funziona così; le colture non nascono per incanto ma hanno bisogno di lunghi preparativi, di cure amorevoli e non pochi investimenti.

Decido poi di spostarmi verso il centro abitato che si presenta più come una terra dimenticata, con le serrande dei bar e delle osterie abbassate. Per i paesi dell’Emilia, che hanno costruito le loro fortune e il loro futuro sulle produzioni tipiche e di nicchia, è un controsenso.

Il clima è surreale e, forse per la prima volta, iniziano a serpeggiare la solitudine e lo smarrimento. Il pensiero corre inevitabilmente a tanti ristoratori, osti e baristi che, per tanti anni, non hanno conosciuto né sabati né domeniche, talvolta non hanno nemmeno fatto ferie, hanno profuso fatiche e ceduto, più di tanti altri, nel loro territorio; hanno mantenuto le loro famiglie, dato speranze ai loro dipendenti e dato vitalità a questi paesi.

Penso agli sforzi che hanno dovuto fare, in questi mesi, per attrezzarsi con il solo obiettivo di garantire la sicurezza di tutti; penso ai soldi che hanno speso per rifornirsi delle derrate necessarie. Per poi trovare qualcuno, impavesato nel suo lusso, che con un colpo di carte e decisioni improvvise, anche poco motivate, solo qualche ora prima li ha fatti chiudere.

In qualche caso non li ha nemmeno mai fatti riaprire. Pensando di accontentarli con le briciole di vituperati ristori. A loro non è rimasto altro da fare che prendersi la sberla, chiudere tutto e dire “Signor sì”, mettendo la coda tra le gambe. E ho parlato di recente con un tizio che, fortuna sua, passa la giornata dietro ai “pezzi di ferro” facendo l’impiegato da casa e, con la sua ridicola altezzosità, mi ha risposto “queste cose fanno parte del rischio di impresa”.

Secondo il mio stile, spesso da orso, lo ho allontanato con un gestaccio della mano e con una parola che non posso scrivere, invitandolo caldamente a non rivolgermi mai più la parola in vita sua.

Poi salgo di nuovo sull’argine e, all’orizzonte, vedo le Alpi innevate. Per noi, gente del fiume, irraggiungibili perché varcare le regioni, ormai da troppo tempo, è diventato un crimine. Il pensiero corre quindi agli imprenditori che hanno investito fior di quattrini per preparare le piste da sci, sentendosi dire per settimane che avrebbero riaperto e, invece, solo il giorno prima, a investimenti fatti, sono stati obbligati, anche loro, a chiudere.

Sempre più smarrito mi avvio verso casa passando di fronte alla piccola palestra del paese. Chiusa da mesi e mesi, dopo fior di investimenti fatti dai suoi giovani gestori. Niente: vietato, vietato e ancora vietato. Ormai tutto è vietato e la libertà è stata presa a sberle.

Non posso non continuare a pensare a quei piccoli imprenditori che non vedono certezza alcuna sul loro futuro e su quello delle loro famiglie, e dei loro figli. Che oggi si sentono dire “apri” e domani, con un colpo di carte “no, dai, chiudi”.

Mi chiedo quale sarà il destino dei nostri piccoli villaggi nati e cresciuti intorno al Po dopo questa terribile pandemia. Certo del fatto che, purtroppo, ci saranno tante nuove ed impreviste povertà e una pandemia ancora più grande e già ben visibile (ma vergognosamente ignorata da chi, per suo preciso compito, dovrebbe invece occuparsene): quella degli smarriti, degli esauriti, dei depressi e degli arrabbiati (che stanno crescendo).

Tanti piccoli imprenditori che avrebbero bisogno di chiarezza, di risposte certe e di garanzie. Trattati invece come trottole: oggi chiudi, domani apri, posdomani chiudi ancora.

Mi chiedo quali attività abbiano svolto, nella loro vita, i figurini col cappio al collo (i benpensanti ci leggano “cravatte” e non cose strane) che oggi occupano vellutate e ricche poltrone e, con un colpo di carte, in poche righe, decidono con tanta superficialità e pochezza, il destino di decine di migliaia di persone che lavorano con ardore e oggi non sanno cosa potranno fare domani.

Questi figurini hanno forse passato la vita a svolgere comode e dorate attività, sempre seduti dietro a qualche “pezzo di ferro” senza conoscere la cera realtà e la concreta fatica del lavoro manuale e quotidiano? Hanno mai provato a piegare la schiena o hanno paura che improvvisamente possa rompersi? Qualcuno non ha mai detto loro che tanti mestieri e tante arti contadine (come le chiamo io) hanno bisogno di lunghi preparativi e di notevoli investimenti per essere svolti? Che decidere il giorno prima, magari dopo aver promesso l’esatto contrario, è assurdo ed è segno di incapacità se non di malafede?

Guardo e riguardo il mio vecchio villaggio avvolto nella nebbia e nel silenzio, un paese fantasma dove quasi non c’è anima viva perché i più sono rinchiusi nelle loro case.

Nessuno di coloro che sono chiamati a decidere tutto, sulle teste di tutti, ha pensato che in paesi e comuni che, a volte,faticano ad arrivare a due o tremila abitanti non ha alcun senso applicare le stesse regole dei grandi centri? Nessuno ha mai pensato che nei nostri piccoli borghi che si affacciano sul Grande fiume, sull’una e sull’altra riva, sarebbero opportune e necessarie deroghe o, comunque, regole più leggere nei confronti di attività che oggi, invece, sono costrette a chiudere? Nessuno ha pensato che, se nei grandi centri, attività come l’asporto e la consegna a domicilio possono funzionare, qui non hanno lo stesso risultato?

Lo stesso discorso vale per i tanti piccoli Comuni di cui l’Italia è disseminata, siano essi in riva a un fiume, al mare o in cima a un monte. Chissà, forse, avrebbero dovuto istituire un ministero dei piccoli borghi o uno degli antichi mestieri.

Sono convinto del fatto che se, a fare i ministri, avessero messo un contadino, un falegname, un meccanico e un oste, vale a dire gente abituata a farsi su le maniche tutti i giorni e tutto il giorno, avrebbero preso decisioni più sagge, meno spregiudicate e, soprattutto, meno dannose sia in termini di sicurezza che a livello economico.

Di questo passo, se almeno ai piccoli centri non si porta un po’ di ossigeno e non si permette di lavorare di più, non si va avanti, diventa molto complesso guardare al futuro con fiducia. Molto più probabile restare in mutande.

Noi, povera gente di campagna, spesso dimenticati dai più, non abbiamo la forza di farci sentire, abbiamo pochi voti da mettere sul tavolo di quelli che contano. Per questo lancio a tutti l’idea di una protesta, civile ma plateale: esponendo dalle proprie case, simbolicamente, un paio di mutande.

Sperando che coloro che sono chiamati a decidere, pur con la priorità della sicurezza di tutti, diano ascolto e attenzione, con i fatti e non con false promesse elettorali, alle esperienze e ai saperi che vengono dal basso. Per la vita, il lavoro e le opportunità dei piccoli borghi. Paolo Panni – Eremita del Po“.

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