Cultura

Consorzio Navarolo, il ricordo di
Italo Gasparetti (di Valter Rosa)

Convinto di avere ancora molte cose da imparare (su Gasparetti, sulle bonifiche e sui fossi), purtroppo oggi non posso più discuterne col mio amico Cirani, non capacitandomi che Casalmaggiore non sia ancora riuscita a dedicargli una targa, nonostante tutti i suoi meriti

Il 6 gennaio 1923 l’ingegnere Italo Gasparetti, all’apice della sua carriera, eletto l’anno prima presidente del Consorzio di esecuzione della bonifica Navarolo, decideva di porre fine alla sua vita, proprio mentre erano iniziati i lavori del primo grande canale. Sul fatto gli storici hanno per lo più glissato, ma all’epoca la vicenda non passò certo inosservata. L’epigrafe posta sulla tomba nel cimitero di Gazzuolo è piuttosto sibillina: «Per la guerra dopo la guerra / meta sola di vita il denaro / obliato il dovere / distrutta ogni sua fede. / Nella elevazione dell’uomo / morte invocata / saluta liberatrice / Italo Gasparetti / * / Solo inalterato vive / l’affetto della moglie / che a imperituro ricordo / questo marmo pose». Che significa? Che Gasparetti fu un suicidato della società? Ricordo di averne parlato a lungo – ormai molti anni fa – con l’ingegner Enrico Cirani, grande frequentatore di archivi e profondo conoscitore, fra tante altre cose, della storia del Consorzio Bonifiche Navarolo. Sulla figura di Gasparetti aveva avviato allora uno studio che non poté portare a termine. Quel colloquio gettò nuova luce sui miei dubbi: nell’ipotesi ricostruttiva suggerita da Cirani, Italo Gasparetti, che aveva già un passato illustre a Milano come ingegnere ferroviario avendo realizzato opere di architettura rivolte al sociale e che, tornato in patria, si era a lungo impegnato per la redenzione del territorio compreso fra Oglio e Po, poneva fine alla sua vita probabilmente come forma estrema di dissenso nei confronti del nuovo Regime Fascista che aveva imposto, a proprio uso propagandistico, un’accelerata ai lavori. Ritenendo invece che l’opera non fosse ancora pronta per essere varata, l’ingegner Gasparetti si era opposto inutilmente, ma, vinto dalle decisioni superiori, aveva preferito sacrificare se stesso piuttosto che assistere impotente alla prevaricanti scelte politiche.

Benché la storia non si ripeta mai uguale, a quasi cento anni da quel fatto si ha la sensazione di trovarci a un medesimo bivio: da una parte, l’afflusso di somme ingenti di denaro e la spinta politica verso investimenti in grandi infrastrutture, coinvolgenti anche la rete delle bonifiche, dall’altra la distanza che separa queste decisioni, calate dall’alto, dai veri bisogni di un territorio e dall’utile sociale. Ma il punto è che la “scienza” che dovrebbe presiedere a queste scelte è spesso la grande assente, anche fra gli addetti ai lavori. Mi è capitato qualche tempo fa di discutere con un tecnico circa l’opportunità o meno di tombinare un canale aperto e di sentirmi dire che era del tutto indifferente e che anzi la soluzione della condotta chiusa era preferibile perché più salubre. Forse il tecnico, in buona fede, ripeteva quello che aveva imparato a scuola e che, alla fin fine, gli risultava comodo per giustificare una scelta che, ai miei occhi, sembrava invece sbagliata. Ma io non sono un tecnico e i miei strumenti argomentativi, a parte il buon senso, sono piuttosto spuntati. L’esperienza, però, mi dava ragione, e oggi è universalmente riconosciuto che molti allagamenti che si verificano anche a causa di piogge modeste (non assimilabili a calamità) sono dovuti in gran parte a questo imbrigliamento delle acque. Quanto alla salubrità, è dimostrato che un canale aperto facilita molto di più l’autodepurazione naturale dell’acqua, il che non avviene proprio in una condotta fognaria. Non sarà propriamente per queste ragioni “ecologiche” che a Milano si pensa di riaprire i navigli, ma è pur vero che da noi in campagna continuiamo a fare tutto l’opposto, non rendendoci conto di quale tesoro venga distrutto giorno per giorno e come questa distruzione, accanto al consumo di suolo, porti al totale dissesto del territorio. In ragione di ciò che accade e che ci riguarda tutti, qui si comprende che la scienza delle acque dovrebbe essere la prima materia da insegnare nelle scuole, a partire dai livelli più bassi e che a insegnarla non dovrebbero essere solo dei ripetitori di principi e leggi fisiche imparate sui manuali, ma anche degli storici e dei semplici contadini. Dalla storia – sempre che si accetti di imparare qualcosa dall’opera di chi ci ha preceduto – ci arriva, ad esempio, l’esperienza straordinaria dei fisici idraulici di fine Settecento (fra questi il grandissimo Giambattista Venturi) che, sotto la spinta di moderni imprenditori, dovendo risolvere gravi problemi di drenaggio di ampie zone paludose del territorio reggiano, invece di pensare a creare nuovi grandi canali di scolo, ebbero la brillante ed economica idea di riscoprire, ovvero riportare in luce, cioè insomma ripulire, dissotterrare e rendere funzionale quella straordinaria rete di canali con cui i loro predecessori, diversi secoli prima, avevano risolto i medesimi problemi.

Insomma quel lontano passato che giaceva dimenticato sotto i loro piedi è alla fine diventato il futuro di un territorio redento nuovamente dalle acque, reso fertile e produttivo.

Purtroppo questa attenzione rivolta alla fittissima rete dei canali con cui è solcato il nostro territorio non è mai stata una preoccupazione delle politiche territoriali, di qualsiasi partito si trattasse, capaci pure di stravolgere le istanze ambientaliste, costruendo ad esempio le piste ciclabili sopra i canali medesimi, trasformandoli in semplice rete fognaria. E che fanno da parte loro quegli agricoltori che arano e seminano fin dentro le sponde dei fossi? Sono anni che continuano a farlo e in modo sempre più aggressivo al punto che anche i canali più profondi verranno prima o poi colmati, – con quale vantaggio economico poi è tutto da capire.

Per mio padre, contadino che non sapeva nulla di fisica idraulica, ma aveva una gran cura degli appezzamenti che teneva in affitto, fossi e capezzagne erano considerati come spazi inviolabili. Questo rispetto gli era stato certamente trasmesso da chi l’aveva preceduto, ma lui l’aveva verificato e misurato costantemente sulla propria esperienza, negli oltre sessant’anni di lavoro, tra temporali e periodi di siccità. Chissà se, nell’attuale campagna di diffusione dei proverbi sui muri del Comune di Casalmaggiore, sia stata predisposta anche una targa per questo: «Fossi e cavedagne benedicono le campagne». Ma dove si dovrebbe affiggere un proverbio come questo? Sulla facciata dell’Ufficio Tecnico? Su quella del Consorzio Navarolo? O un po’ dovunque sulle rive dei fossi ormai segnate dalle file del grano che sta già crescendo?

Convinto di avere ancora molte cose da imparare (su Gasparetti, sulle bonifiche e sui fossi), purtroppo oggi non posso più discuterne col mio amico Cirani, non capacitandomi che Casalmaggiore non sia ancora riuscita a dedicargli una targa, nonostante tutti i suoi meriti.

Valter Rosa

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