Demetrio Annibale Carletti: l'amico
di don Mazzolari e la sua storia
Nacque a Solarolo Monasterolo, frazione di Motta Baluffi, il 23 luglio 1888 da Eugenio Carletti, muratore di Cingia dè Botti e da Maria Margherita Grazioli, contadina di Solarolo. Fu sacerdote e militare italiano, decorato di medaglia d’oro al valor militare durante il primo conflitto bellico
Celebrare la Giornata della Memoria non deve essere solo il ricordo di un passato drammatico, ma deve essere anche occasione di studio e conoscenza. Conoscenza di un capitolo storico tragico, che deve indurre a tenere viva la memoria, quella di ognuno di noi, nelle azioni di ogni giorno, nei progetti, nelle idee. Ma anche conoscenza da tramandare tra coloro che, come chi scrive queste righe, hanno avuto la fortuna di non vivere quei momenti drammatici. Andando anche a ricostruire pagine, talvolta dimenticate, che hanno toccato, interessato e ferito anche i nostri territori, quelli compresi tra l’Oglio e il Po. Ci sono memorie che sono state tramandate solo oralmente, tra le persone, altre rimaste magari custodite in qualche immagine o in qualche foglietto sgualcito rimasto in fondo ai cassetti, finito a far polvere nelle soffitte o nelle cantine delle nostre case. E’ giusto scriverli, tenerli vivi, crearne un archivio ed un centro di documentazione che sia aperto e accessibile a tutti; è giusto intervistare quelle persone, uomini e donne, che hanno la fronte e le guance scavate dalle rughe, che quelle pagine le hanno vissute e toccate con mano, tirando fuori anche il più semplice dei ricordi. Perché la storia la si ricostruisce anche così e lasciarla morire, magari spegnendosi tra i ricordi di coloro che “vanno avanti”, per dirla all’alpina, significa perdere le memorie.
Chissà quante ne hanno viste e vissute le nostre cascine, i nostri borghi, anche quelli più ameni; chissà quante memorie sono finite, purtroppo, in qualche modo, nell’oblio e nel dimenticatoio. E’ dovere morale, e civico, di tutti, tirarle fuori, scriverle, renderle pubbliche.
I nostri territori, come già anticipato, non sono certo stati esenti da pagine funeste e buie. Diversi centri, in particolare, hanno ospitato luoghi di internamento. Parecchi ne furono creati tra il 1942 ed il 1945, a Cremona e provincia, e nel comprensorio dell’Oglio Po. Il più importante fu senz’altro quello di Gurata di Cingia dè Botti, con ben 79 internati (72 dei quali congiunti ribelli del Carnaro deportati dai territorio della provincia annessa di Fiume) che furono poi trasferiti al Campo di internamento delle Fraschette di Alatri, istituito nel 1941 dalle autorità militari del regime fascista. Entrò in funzione il primo ottobre 1942 restando attivo fino al 19 aprile 1944 e nonostante fosse stato progettato per ospitare prigionieri di guerra, finì per diventare luogo di internamento di civili per lo più slavi e greci e delle altre popolazioni direttamente in guerra con l’Italia.
Meritevole è il progetto di ricerca e documentazione pubblicato sul portale campi fascisti.it, ideato una decina di anni fa da Andrea Giuseppini e Roman Herzog per l’associazione Audiodoc, curato dal 2015 da Andrea Giuseppini per l’associazione Topografia per la storia. Un sito che rappresenta un importante centro di documentazione on line sull’internamento e la prigionia come pratiche di repressione messe in atto dallo Stato italiano nel periodo che va dalla presa del potere da parte di Benito Mussolini (1922) fino alla fine della seconda guerra mondiale (1945). Come noto, il regime fascista si è avvalso di svariati strumenti, modi e luoghi per imprigionare, reprimere, segregare e deportare popolazioni straniere, oppositori politici, ebrei, omosessuali e rom. Dai campi di concentramento per i civili sloveni e croati, a quelli dove furono deportati migliaia di eritrei, etiopi e libici, dalle località di internamento per ebrei stranieri, fino ai luoghi di confino per oppositori politici. Il sito campi fascisti.it è in continuo aggiornamento e raccoglie documenti, testimonianze, immagini per dare vita ad una mappatura, che sia la più completa ed esaustiva possibile, delle centinaia di campi e luoghi di internamento che esistevano nel nostro Paese. Va ricordato che, per luoghi di internamento e prigionia si intendono le località di confino, le carceri, i campi di concentramento, i comuni di internamento e quanto altro possa emergere dalla ricerca storica come contesto in cui siano state messe in atto pratiche repressive rivolte verso oppositori politici, specifiche categorie sociali, gruppi religiosi, civili e militari di stati stranieri coinvolti in guerre od occupazioni militari.
Ecco quindi che, grazie proprio a quanto pubblicato su campi fascisti.it è possibile effettuare una mappatura, abbastanza esaustiva, dei luoghi cremonesi in cui le varie pratiche repressive, purtroppo, vennero attuate. Ci furono, soprattutto, luoghi di internamento, a partire dal già citato Gurata di Cingia dè Botti per proseguire con Casalmaggiore, Castelleone, Cremona, Izano, Pandino, Pescarolo, Piadena, Pizzighettone, Robecco d’Oglio, Soncino, Soresina, Vescovato. Uscendo dal Cremonese, ma restando nel comprensorio dell’Oglio Po, ci furono campi di internamento anche ad Asola, Gazzuolo, Mantova, Marcaria, Quistello e, sulla sponda opposta del Po, a Colorno e a Zibello. A questi vanno aggiunti i campi di lavoro per prigionieri di guerra a Torlino Vimercati ed a Trigolo.
Cui sono poi le persone, che importanti pagine di storia le hanno scritte, con la loro vita ed il loro eroismo. Uno su tutti Demetrio Annibale Carletti di cui, proprio quest’anno, ricorre il cinquantesimo della morte. Nacque a Solarolo Monasterolo, frazione di Motta Baluffi, il 23 luglio 1888 da Eugenio Carletti, muratore di Cingia dè Botti e da Maria Margherita Grazioli, contadina di Solarolo. Fu sacerdote e militare italiano, decorato di medaglia d’oro al valor militare durante il primo conflitto bellico e divenuto un vero e proprio simbolo dei cosiddetti preti-soldato, i sacerdoti in grigio verde. Attraversò, in prima linea, tanto il primo quanto il secondo conflitto bellico, soffrì e amò prodigandosi sempre per il prossimo. Amico di Don Primo Mazzolari, nel cinquantesimo della morte non può e non deve essere dimenticato, proprio per le opere e gli esempi umani di cui si è reso protagonista. Fin da giovane seminarista dovette sostenere le lotte dell’anima, combattuta tra l’ipocrisia dei superiori e il suo ideale di sacerdozio improntato ad un apostolato fatto di carità, bontà e giustizia. Fu proprio la sofferenza spirituale e psicologica di quegli anni ad unirlo in una profonda amicizia con Primo Mazzolari, che all’epoca, a sua volta, era un seminarista. La loro amicizia durò tutta la vita. Annibale Carletti fu ordinato sacerdote nel 1911, destinato alla parrocchia cittadina di Sant’Ambrogio. Durante la prima guerra mondiale fu un eroico cappellano militare. Il 15 maggio 1916, durante la durissima battaglia di Quota 418 a Castel Dante, diede prova concreta di coraggio, dinamismo e serenità. Fu leggermente ferito dallo scoppio di una granata ma proseguì comunque l’attività radunando circa 300 soldati che si ritiravano dalla trincee distrutte a causa del bombardamento. Grazie al suo grado prese il comando del reparto in sostituzione agli ufficiali caduti, rifiutando la resa intimatagli da un graduato austriaco e incitando i soldati alla rioccupazione delle trincee sconvolte. Al suo ordine fu riaperto il fuoco verso i nemici ai quali furono inflitte gravi perdite.
Giunta la notte e disposto il ripiegamento dei superstiti, rimase sul campo per raccogliere le ultime volontà dei morenti; avvistato dagli austriaci in perlustrazione si sottrasse alla morte fuggendo per i dirupi. Il giorno seguente si ricongiunse al 207° nel frattempo concentratosi a Costa Violina e numericamente rinforzato dall’arrivo di altri reparti. Durante l’organizzazione della nuova resistenza il reggimento fu colto di sorpresa dall’artiglieria austro-ungarica. Mentre i soldati sgomenti si apprestavano a difesa guidati dai nuovi ufficiali intervenuti, don Carletti mise in salvo numerosi feriti trasportandoli a spalla in luoghi meno esposti ed incoraggiandoli a resistere. Incurante della vita deterse le loro ferite recandosi più volte ad attingere l’acqua di una sorgente battuta dalle mitragliatrici nemiche. Il 17 maggio i fanti del 207°, nonostante fossero stati decimati, attaccarono ripetutamente il fronte austro-ungarico che pur riuscendo a prevalere pagò la vittoria con gravissimo sacrificio. Soltanto pochi giorni dopo, il 30 maggio 1916, don Annibale confermò la sua fama di soldato coraggioso e tenace ma anche di sacerdote zelante. A Passo Buole, dove gli austriaci penetrarono alcuni elementi delle trincee italiane e si fece più imperioso il bisogno di rinforzi, raccolse numerosi soldati sbandati che vinti dallo sgomento fuggivano verso le retrovie allontanandosi dal pericolo. Al giustificato timore di costoro contrappose la calma e serena parola di fede, convincendoli a compiere il proprio dovere. Gli stessi soldati lo riconobbero quale comandante e li condusse al posto d’onore combattendo insieme a loro nel punto più ferocemente conteso. I soldati, animati dal suo esempio di coraggio e dedizione, recuperarono le posizioni perdute difendendosi addirittura a sassate. Quando il cappellano comandò il fulmineo contrattacco alla baionetta, il reggimento guadagnò terreno e mantenne il possesso di Passo Buole, in seguito battezzato “la Termopili d’Italia” per l’eroica resistenza sostenuta sull’importante posizione tra la Vallarsa e la val Lagarina. Fu proprio in quella circostanza che don Annibale Carletti si guadagnò sul campo la medaglia d’oro al valor militare e finì sulla copertina della celebre Domenica del Corriere, disegnata da Achille Beltrame. La decorazione gli fu conferita il 26 ottobre 1916 dal Generale Armando Ricci Armani.
Dopo la valorosa impresa di Passo Buole, il sacerdote fu protagonista di un avvenimento che fece aumentare in tutti i soldati un sentimento ammirazione e devozione. Nel giugno del 1916 i Reali Carabinieri della stazione di Ala intercettarono quattro soldati che si erano allontanati dalle trincee dello Zugna senza licenza. I giovani militari, trasferiti a Marani per essere processati, intesero che la loro condanna era già stata scritta alla vista di alcune fosse appositamente disposte dai genieri. Erano i giorni terribili dei processi sommari e delle decimazioni, veri e propri omicidi di massa voluti dagli alti Comandi per tenere in riga i soldati sbandati e disertori. Don Annibale, venuto a conoscenza dell’episodio, scese dallo Zugna e andò a difenderli, riuscendo a far commutare la condanna a morte in carcerazione per alcuni anni. Addolorato da questa situazione, che confliggeva gravemente con i propri ideali, chiese e ottenne il trasferimento ai Reparti d’Assalto, quasi a voler riaffermare la propria fedeltà alla patria vittoriosa. Indossata la divisa degli Arditi prese quindi parte a vari episodi cruenti verificatisi durante la ritirata del Piave, dapprima a Pieve Soligo, poi a Monfenera e sul Monte Tomba. Nel frattempo a Cremona la sua persona e le sue imprese venivano da tempo strumentalizzate sia dagli interventisti che dal clero, per la maggior parte neutralista e ostile. I primi, di stampo liberal-massonico, lo esaltavano contrapponendolo al Vescovo e alla gerarchia ecclesiastica; i secondi, fautori del migliolismo, lo screditavano come sacerdote Alla fine del 1918 fu quindi comandato Ufficiale Propagandista presso il Comando della V Armata al fine di controbattere il diffondersi del disfattismo tra i soldati. Anche in questo ruolo si dimostrò tenace, adoperandosi per sostenere e fortificare il sentimento patriottico della truppa e della popolazione civile di Parma, Piacenza e Cremona, territori dove maggiormente avevano fatto presa le idee sovversive della sinistra rivoluzionaria. Nel 1919 scrisse articoli e tenne conferenze di natura interventista ed il vescovo di Cremona monsignor Giovanni Cazzani, esponente cattolico del pacifismo assoluto, lo richiamò al rispetto della disciplina ecclesiastica. Tra i due si manifestò una chiara e mai nascosta ostilità; la stessa che don Carletti espresse anche verso l’allora Partito Popolare dell’onorevole Guido Miglioli. ritenuto un disfattista e agitatore di masse.
Don Carletti continuò ad essere un propagandista con costanza e persuasione sino al definitivo collocamento in congedo dal Regio Esercito, ottenuto nel mese di agosto del 1919. Riprese quindi la vita sacerdotale con il fervore e la passione di chi aveva da proporre un progetto nuovo e innovativo, uno stile pastorale sganciato da tante norme formali e validamente sperimentato tra i soldati. Fin da subito dovette misurarsi con il neo-costituito decreto Redeuntibus, attraverso cui la Chiesa istituzionale si preoccupava di rimodellare il prete-soldato reduce dalla guerra secondo schemi tradizionali che egli riteneva inadeguati alla nuova realtà sociale ed ecclesiale. Il suo concetto di cristianesimo, di fatto, volgeva a una solida sintonia con la vita reale; vivendo a pieno le sofferenze di una umanità squarciata dalla guerra riteneva che la Chiesa, attraverso salutari modifiche di struttura, potesse rivelare meglio il proprio volto consolatore. Fu chiaramente allineato al riformismo religioso promosso dalla Lega Democratica Nazionale di Eligio Cacciaguerra, esprimendo obiezione rispetto all’esercizio dell’infallibilità pontificia e tratteggiò come prima necessità la concezione di un modello innovativo di sacerdote, oppositore dell’istituzionalismo giuridico che tanto premeva sulla Chiesa al punto da farla apparire una vasta organizzazione politica. Questi ideali erano simili a quelli tratteggiati dall’amico don Primo Mazzolari, ma evidentemente più netti e radicali. Nell’ottobre 1919, per promuovere la sua idea di riformismo pastorale mando una lunga lettera-confessione al Vescovo Cazzani attraverso la quale, in modo tumultuoso e in termini schietti, espresse le idee e i sentimenti con i quali era tornato dalla guerra.
Sperava, don Carletti, di fare breccia nel vescovo e invece lo scontro fu nettissimo. Erano due mentalità e due stili pastorali completamente opposti e al punto che monsignor Cazzani interpretò le parole di don Carletti come l’annuncio della defezione dal clero cattolico. Ci furono poi ulteriori missive, repliche e controrepliche che non fecero altro che rimarcare due punti di vista totalmente diversi. Don Carletti divenne così sgradito al clero cremonese e venne addirittura sospettato di apostasia ed errori modernistici sull’infallibilità della Chiesa. Il Vescovo Cazzani, compilando una relazione ufficiale relativa ai cappellani militari, lo indicò incensurato quanto a condotta morale, ma corrotto nella mente e quando la relazione giunse a Roma il sacerdote fu colpito da scomunica latae sententiae e risolutivamente espulso dalla Chiesa istituzionale vedendosi costretto ad accettare, con grandi sofferenze, la riduzione allo stato laicale,. Da laico si misurò con le vicende politiche del primo dopoguerra, confuso e ribollente, caratterizzato dalla violenza della fazione montante, quella di Mussolini. Nonostante il legame nazionalista, la medaglia d’oro e il reducismo, Carletti avversò il fascismo in nome degli ideali democratici. Durante il 1920 fu comiziante di piazza e scrisse articoli di natura antifascista. Questa palese condotta suscitò la collera di Roberto Farinacci che cominciò a perseguitarlo e ordinò una regolare sorveglianza da parte della polizia.
Bandito da Cremona raggiunse clandestinamente Firenze dove si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza. A Firenze, nel 1921, fu promotore e organizzatore della Federazione Provinciale degli ex Combattenti, di cui fu il primo presidente e con la quale difese l’autonomia politica di fronte all’assorbimento che ne tentava il fascismo. Fu, quella, una vera e propria forza antifascista. Tra il 1922 ed il 1923 fu lusingato da cariche onorifiche e ricevette anche offerte di impieghi remunerativi al fine di cessare l’attività di propaganda. Ma lui, fedele ai suoi ideali e soprattutto ai suoi valori, non scese mai a compromessi proseguendo la sua battaglia ideologica, aderendo a Italia Libertà e continuando a lottare sempre per gli ideali di libertà che lo animavano nel profondo. Nel 1924 si laureò e iniziò la professione di avvocato fossando la sua residenza a Firenze dove, nello stesso anno, sposò Maria Iolanda Bosio con il rito della Chiesa Anglicana. Mantenne sempre uno speciale legame con la sua terra d’origine ed eresse una villa a Cingia de’ Botti, dove aveva amici e parenti, e dove trascorreva con la famiglia i mesi estivi. Don Primo Mazzolari, parroco a Bozzolo, lo raggiungeva proprio nella villa di Cingia dè Botti e la loro intensa amicizia proseguì inalterata anche dopo l’abbandono del sacerdozio.
Ebbe due figli, Giannicolò e Caterina (quest’ultima nata a Cingia dè Botti nel 1941 e battezzata proprio da Don Primo Mazzolari). Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale la famiglia Carletti si trasferì stabilmente a Cingia dè Botti dove, di nuovo, Annibale Carletti si distinse per la straordinaria generosità e la sensibilità d’animo. Quelle doti che proprio la Chiesa spesso predica dal pulpito, ma i fatti hanno dimostrato, almeno all’epoca, il contrario. Con buona pace della misericordia e di quegli stessi valori predicati dal pulpito, un uomo e un eroe, è stato escluso solo per aver avuto il coraggio di manifestare ideali sui quali ci sarebbe stato da costruire, forse, nuove e solide basi. In ogni caso, come già accennato , per lui hanno di nuovo parlato i fatti, che hanno reso onore al suo cuore grande. Durante gli anni del secondo conflitto bellico, infatti, fu accanto ai compaesani più bisognosi procurando, per loro, cibo e medicinali e rifornì con quintali di farina e di frutta l’ospedale Germani quando la struttura fu destinata ad accogliere gli sfollati.
Per aver nascosto nella sua villa alcuni ebrei e alcuni ufficiali inglesi fuggiti dai campi di prigionia,fu pure condannato a morte dai fascisti, ma riuscì miracolosamente a sfuggire alle ricerche continuando sempre la sua battaglia in nome degli ideali più veri della libertà. A guerra conclusa si oppose sempre a qualsiasi sorta di violenza, disonestà e vendetta, mettendo sempre l’amore per il prossimo davanti a tutti, senza distinzione di idee, ideologie e azioni, salvando anche la vita a quattro fascisti che, in precedenza, lo avevano invece condannato a morte. Condanna per la quale, le quattro “camice nere” erano stati poi a loro volta condannati a morte dai partigiani. Ma lui, Carletti, li salvò, sempre in nome di quell’amore che ha costantemente profuso verso il prossimo. Un uomo della carità e dell’amore, di grande spiritualità e profonda moralità cristiana, che ha saputo mantenere, nonostante le traversie, il Vangelo al centro della sua azione. Memorabili le parole che pronunciò alla fine del suo cammino terreno: “Nessuno ha mai cercato di leggere in questo libro chiuso la mia avventura di guerra e dopoguerra, tutto il bene e tutto il male che posso aver fatto, ma con l’innocenza dello spirito. Ho avuto il bando da Cremona regnante Farinacci e il bando dalla Chiesa regnante Monsignor Cazzani” Una vita eroica la sua; un fulgido esempio di bontà e generosità, che a cinquant’anni dalla morte, almeno per rendergli in qualche modo giustizia, dovrebbero fargli meritare l’apertura del processo di canonizzazione e, quindi, la gloria degli altari. Puntuali, in questo senso, dovrebbero tornare le parole pronunciate da Papa Francesco in occasione dell’Angelus in piazza San Pietro per la solennità di Tutti i Santi del 2015.
Parlando proprio dei santi il pontefice disse ” Facciamo attenzione: non soltanto quelli canonizzati, ma i santi, per così dire, “della porta accanto”, che, con la grazia di Dio, si sono sforzati di praticare il Vangelo nell’ordinarietà della loro vita. Di questi santi ne abbiamo incontrati anche noi; forse ne abbiamo avuto qualcuno in famiglia, oppure tra gli amici e i conoscenti. Dobbiamo essere loro grati, e soprattutto dobbiamo essere grati a Dio che ce li ha donati, che ce li ha messi vicino, come esempi vivi e contagiosi del modo di vivere e di morire nella fedeltà al Signore Gesù e al suo Vangelo. Quanta gente buona abbiamo conosciuto e conosciamo, e noi diciamo: “Ma questa persona è un santo!”, lo diciamo, ci viene spontaneo. Questi sono i santi della porta accanto, quelli non canonizzati ma che vivono con noi”.
Annibale Carletti ha vissuto così, da eroe al fronte, da santo nelle comunità in cui ha vissuto e tra la gente con cui ha condiviso percorsi di vita, senza mai fare distinzioni per nessuno. Se in occasione della Giornata della memoria, tra le tante “memorie”, è giusto ricordare, nel cinquantesimo della morte, anche quella di quest’uomo nato nella campagna della piccola Motta Baluffi, val la pena ricordare anche un altro significativo anniversario. Infatti nel 1957, e quindi 65 anni fa, moriva il celebre poeta e scrittore triestino Umberto Saba, uno dei maggiori intellettuali del Novecento. Saba, come noto, trascorse un periodo della sua esistenza a Casalmaggiore. Infatti, come si può leggere anche in un interessante articolo pubblicato nel 2015 su “Casalmaggiore”, bimestrale della Pro loco, a firma di Guido Sanfilippo, in occasione del primo conflitto bellico, Casalmaggiore fu individuata tra le sedi in cui creare un campo di prigionia. Era uno degli 83 campi di prigionia italiani della grande guerra e Saba, richiamato alle armi nel giugno 1915, venne inviato come soldato semplice nel campo per prigionieri austriaci di Casalmaggiore, dove restò meno di tre mesi, tra agosto e ottobre. In quel breve periodo scrisse otto composizioni poetiche che andarono a formare nella prima edizione del Canzoniere del 1921 una sezione delle Poesie scritte durante la guerra. Nel 1938, anno della promulgazione delle leggi razziali del fascismo, per lui iniziò un periodo particolarmente difficile che lo costrinse anche a trasferirsi in Francia.
Tornò in Italia, a Roma, l’anno successivo, trovando la protezione di Giuseppe Ungaretti prima e poi, tra il 1943 ed il 1945, durante i suoi spostamenti fra Trieste, Firenze, Milano e Roma, di Eugenio Montale e di diversi intellettuali antifascisti. A 65 anni dalla morte, nonostante un “incontro” durato appena pochissimi mesi, è giusto che Casalmaggiore, che già gli ha dedicato una via, lo ricordi. Anche questo è fare memoria. Magari anche posando le ormai celebri pietre d’inciampo lungo gli argini del Po, dell’una e dell’altra riva. Non solo per ricordare, ma per guardare avanti attraverso la consapevolezza del passato e dei suoi insegnamenti.
Paolo Panni, Eremita del Po